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Giustizia-Carcere. Una emblematica lettera di ergastolani. Allarme per HIV ed epatite C: in carcere diffusi 10-20 volte di più

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E’ davvero una lettera molto bella quella che hanno scritto Carmelo Musumeci, Gaetano Fiandaca e Agostino Lentini al ministro della Giustizia Paola Severino. Musumeci, Fiandaca e Lentini sono tre ergastolani, scontano la loro condanna nel carcere padovano “Due Palazzi”. Non chiedono clemenza, non cercano di sminuire la portata dei crimini commessi. Pongono tuttavia una domanda che fa riflettere: “Se il fine della pena è mai, la possibilità di redenzione, di emergere di nuovo alla vita è pari a zero e quindi che cosa sognare? Quali luci in fondo al tunnel? Solo un cammino nelle tenebre di assoluta disperazione”. Nel carcere padovano, 200 degli 800 detenuti lavorano. Ma dei reclusi sottoposti ad alta sorveglianza, 28 di cui 22 ergastolani, solo due, e a rotazione, svolgono attività lavorative.

Eppure proprio il lavoro potrebbe dare dignità e speranza a chi è detenuto; c’è poi la Costituzione: all’articolo 27 stabilisce che le pene devono tendere alla rieducazione; e la legge sancisce anche che la pena dell’ergastolo sia scontata con l’obbligo del lavoro. Per non dire degli elementari di umanità e misericordia, a cui sono tenuti tutti, credenti, non credenti o credenti in altro che siano

“Signor ministro, pensa che i condannati all’ergastolo abbiano diritto ad un carcere uguale per tutti e quindi ad accedere alla possibilità di lavorare e trovare legami di relazione con il volontariato, oppure l’ergastolo è un matrimonio del condannato con la galera, indissolubile finché morte non li separi?”. Questa la questione posta da Musumeci, Fiandaca e Lentini. Chiedono insomma di essere “considerati parte integrante della società, persone normali, seppure ergastolani; esseri umani, seppur reclusi, individui sui quali iniziare ad investire (dopo 20 anni e più di pena), un inizio di credibilità…Ci sarebbe così finalmente preclusa la possibilità di divenire automi, essere inghiottiti dall’inutilità e dal tedio, mineralizzati in un circolo vizioso disumanizzante”.

Su questo fronte c’è molto da fare, e ancora troppo poche le realtà che consentono a un detenuto di avviare un reinserimento nel mondo del lavoro. Secondo i dati forniti dal ministero della Giustizia, oltre il 50 per cento della popolazione carceraria oggi in Italia ha un’età compresa tra i 21 e i 39 anni. La maggior parte della popolazione carceraria italiana, insomma, è in piena età lavorativa, ma viene lasciata nell’ozio. L’importanza del lavoro, il suo ruolo rieducativo, è comprovato dalle statistiche: solo il 12-19 per cento dei carcerati torna a delinquere, se nel periodo di detenzione ha avuto la possibilità di lavorare presso imprese o cooperative esterne, mentre incorrono nella recidiva ben 7 su 10 detenuti che abbiano scontato dietro le sbarre la totalità della pena. Una cosa giusta, e anche conveniente, dunque, assicurare una possibilità di lavoro a chi è in carcere. Eppure è in corso una progressiva riduzione dello stanziamento dei fondi che dovrebbero consentire ai detenuti di lavorare fuori dal carcere come previsto dalla Legge Smuraglia del 2000 attraverso una serie di incentivi fiscali e contributivi per le aziende. Negli ultimi due anni hanno subito pesanti tagli anche i fondi destinati al lavoro che si svolge all’interno degli istituti penitenziari.

Siccome piove sempre sul bagnato, non manca l’allarme per le malattie infettive, dove la prevalenza di Hiv ed epatite C “è da 10 a 20 volte superiore a quella della società esterna”. È una situazione che riguarda un po’ tutte le carceri europee, un mal comune che costituisce ben poco gaudio. Stefan Enggist, responsabile Salute e Carcere di Oms Europa (che dal 26 al 28 settembre prossimi sarà a Viterbo in occasione della “Conferenza Europea 2012 sulle Malattie Infettive, le politiche di riduzione del danno ed i diritti umani in carcere”), spiega che “nelle carceri europee si stima vi siano circa 2 milioni di detenuti e che circa 6 milioni di persone passino ogni anno attraverso il sistema penitenziario: quanti di loro sono affetti da una malattia infettiva? Con molte malattie come l’Hiv o l’epatite C, ad esempio, la prevalenza nelle carceri è da 10 a 20 volte superiore a quella della società esterna. Ma non c’è sorveglianza continua, anzi in molti Paesi, la maggior parte dei penitenziari, proprio perché tali, sono esclusi dai sistemi nazionali di sorveglianza sanitaria. Probabilmente perché solo in pochi Paesi il Ministero della Salute è responsabile della salute anche nelle carceri. Nella maggior parte dei casi, referente è il ministero della giustizia oquello degli interni”.

La salute dei detenuti, sostiene Enggist, “dovrebbe essere in cima alla lista delle priorità nelle carceri europee: quando si pensa a una prigione, automaticamente si fa riferimento a sicurezza e custodia come uniche priorità del luogo. Ma spesso, gli stessi responsabili o coloro che decidono, sono ignari del fatto che nel momento in cui uno Stato priva una persona della sua libertà, esso diventa pienamente responsabile per la salute e il benessere di quella persona. In concreto ciò significa che uno Stato ha l’obbligo di stanziare risorse al fine di garantire il diritto alla salute per tutti i prigionieri”.

Non solo: “Manca la consapevolezza del fatto che la salute e il benessere dei prigionieri riguardano direttamente la sanità pubblica nel suo complesso. Ad esempio in Paesi con alti tassi di tubercolosi, uno dei vettori dell’epidemia possono essere le carceri, a causa della mancanza di accurate misure di prevenzione, diagnosi e trattamento. Lo stesso vale per l’epatite o l’Hiv/Aids. E non sembra esservi sufficiente consapevolezza del fatto che in tutti i Paesi, i detenuti provengono da comunità più svantaggiate, dove si accumulano rischi per la salute (immigrazione clandestina, il consumo di alcool e droghe illecite). Per il bene non solo di ogni singolo detenuto, ma anche per il bene della salute pubblica in generale è fondamentale che i servizi sanitari carcerari offrano almeno la stessa qualità delle cure rispetto a qualsiasi altro servizio di sanità pubblica della  comunità”.

A partire dal marzo 2009, ricorda Enggist, 77 Paesi in tutto il mondo hanno introdotto programmi contro scambio di aghi e siringhe in comunità: “Di questi, almeno 10 hanno avviato programmi di scambio di aghi nelle prigioni. Al momento, interventi di questo tipo sono stati introdotti in oltre 60 carceri in Svizzera, Germania, Armenia, Lussemburgo, Spagna, Moldavia, Iran, Romania, Portogallo e il Kirghizistan. Ovunque introdotte, queste misure hanno contribuito a più bassi tassi di infezione di HIV e di epatite e non hanno mai indotto maggiore consumo di droghe né al ferimento di personale o altri detenuti con aghi”.

 


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