L’agitazione permanente delle donne contro il governo Salvini – Di Maio è già iniziata e non finirà molto presto. Oggi, sabato 24 novembre, l’appuntamento è alle 14 in piazza della Repubblica, a Roma, dove chiunque, donne e uomini, potranno gridare il proprio dissenso verso politiche che non rispettano nessun diritto. Il movimento femminista “Non una di meno”, si presenterà per le strade senza bandiere ma con le idee molto chiare. Per la Giornata internazionale contro la violenza maschile sulle donne, che ricorre domenica 25 novembre (in cui è prevista l’assemblea nazionale in preparazione dello sciopero globale dell’8 marzo), le donne guideranno la manifestazione di oggi rimandando al mittente le politiche di questo governo, dall’attacco alla legge sull’interruzione di gravidanza e al diritto al divorzio, fino al tentativo di esporre donne e bambini alla violenza domestica: un fenomeno sistemico, e non un’emergenza, su cui il governo attuale non ha letteralmente mosso un dito se non per peggiorare la situazione.
Ma andiamo per ordine, perché per capire come combattere la violenza maschile sulle donne deve essere chiaro come sia impossibile contrastarla senza una politica che non solo punisca chi agisce e protegga chi la subisce, ma che scardini concretamente una cultura machista e patriarcale che stabilisce come norma uno sbilanciato rapporto tra i sessi in tutti gli ambiti, dal lavoro alla famiglia, in cui le donne non solo non hanno nessuna scelta su come stare al mondo ma neanche sui propri corpi.
Una delle prime violenze che le donne sono costrette a subire, sta nel fatto che in Italia è diventato quasi impossibile interrompere una gravidanza per il 70% di obiettori che popolano gli ospedali. Una negazione di un diritto che pone l’Italia a livello di Paesi in cui l’aborto non è permesso, allontanandola definitivamente da Paesi in cui l’obiezione di coscienza non esiste nemmeno, come la Svezia o la Finlandia. A Catania a luglio del 2019 si aprirà il processo per concorso in omicidio colposo plurimo nei confronti di sette medici obiettori che non vollero praticare l’aborto su Valentina Milluzzo, la 32enne morta il 16 ottobre 2016, malgrado fosse in una condizione di sepsi grave. E questo mentre nei Comuni di alcune città d’Italia sono state presentate mozioni – da Lega, Fratelli d’Italia e FI – per sostenere associazioni pro life e progetti per dissuadere chi vuole interrompere una gravidanza. La prima è stata Verona, dove questa mozione è passata, e dove oggi Forza Nuova, insieme ai movimenti cattolici, si è data appuntamento per il meeting “Verona, Vandea d’Europa” sull’impegno dell’estrema destra contro la legge 194: un incontro che verrà fatto negli spazi del comune dopo che l’albergo che avrebbe dovuto ospitare il convegno aveva negato la sala per motivi di sicurezza. Ma il problema non è solo di Forza Nuova perché ad aderire al Comitato No 194 – che vuole cancellare la legge e condannare donne e medici con pene dagli 8 ai 12 anni – c’è anche il ministro della famiglia, il leghista Lorenzo Fontana, che non ha mai nascosto le sue simpatie per l’estrema destra della sua città, Verona appunto, e che dopo il suo insediamento ha detto chiaramente che la famiglia è quella “naturale” (uomo/donna) e che sarebbe suo desiderio dare una “stretta” all’aborto: e questo in linea con tutte le ultra destre che in Europa e nel mondo hanno fatto dei principi cattolico-oltranzisti la loro bandiera politica.
In questo clima di restrizione dei diritti le prime a rimetterci le penne sono proprio le donne, ma anche bambine e bambini considerati alla stregua di oggetti da prendere, spostare e piegare a proprio piacimento da parte del padre-padrone. A fare la grande mossa, quella che finora nessuno aveva osato fare, è un altro cattolico, un neocatecumenale, che è entrato nella vita delle donne come un treno ad alta velocità che si schianta su un muro. Il senatore Simone Pillon, anche lui leghista del nord (Brescia), mesi fa ha presentato il disegno di legge più contestato nella storia d’Italia: il ddl 735 sulla riforma del diritto di famiglia. Una proposta per regolamentare la già esistente legge 56 sull’affido condiviso che avrebbe gravi ripercussioni su tutti, specialmente su donne e bambini. In completa contraddizione con un governo che toglie il congedo parentale per i padri, il ddl Pillon insiste sulla presenza dei papà nella crescita dei figli dopo la separazione, chiedendo che questi ultimi vivano con la valigia in mano stando 15 giorni a casa di un genitore e 15 giorni dall’altro, e cancellando anche l’assegnazione della casa al minore e il mantenimento, dando così un colpo di spugna al reato 570 del codice penale per il reato (in aumento) di mancato mantenimento. Pillon inoltre vorrebbe obbligare ad andare in mediazione a pagamento tutti quelli che vogliono separarsi o divorziare, rendendo così accessibile un diritto solo a chi può permettersi di pagare le parcelle dei mediatori. La cosa più grave però è che questo disegno di legge esponga donne e bambini alla violenza domestica attraverso gli articoli 11 e 12 e gli articoli 17 e 18: nei primi due, sebbene si tolga l’affido condiviso in caso di violenza domestica “comprovata”, i bambini saranno comunque costretti a frequentare il genitore, anche se offender e abusante, 12 giorni al mese compreso il pernottamento. Mentre per gli altri due, nel caso un bambino rifiuti un genitore, senza andarne a vedere le ragioni, dovrà essere prelevato dal genitore accudente e messo in casa famiglia per “resettare” il suo cervello o addirittura dato in affidamento all’altro anche se quest’ultimo abbia avuto la revoca dell’affido condiviso a causa di abusi o violenze: e questo perché il rifiuto, al di là delle ragioni, sarebbe un criterio diagnostico per l’alienazione parentale, una teoria inesistente mai dimostrata scientificamente e formulata da uno psichiatra, Richard Gardner, che teorizzava la pedofilia come un rapporto normale tra adulti e bambini.
Una legge che sarebbe uno sfacelo alla luce di tutti quei bambini che vengono già uccisi da padri già violenti che per vendicarsi della moglie o della ex, infieriscono sui propri figli: come Gianfranco Zani che due giorni fa a Sabbioneta (Mantova) ha dato fuoco alla casa della ex moglie che da tempo cercava di scappare dalla sua violenza, uccidendo così il figlio di 11 anni, e questo malgrado fosse stato allontanato con un provvedimento del giudice. Una legge, contro cui oggi in piazza le donne grideranno NO, e che porterebbe alla sparizione delle denunce per maltrattamento e abuso nella paura di perdere completamente i figli e con il rischio di darli in mano direttamente al genitore abusante se solo provano a mostrare timore e rifiuto.
Non solo, perché questo governo, insieme al ddl Pillon, ha in discussione un altro disegno presentato da Paola Binetti, il ddl 45, in cui si toglie uno dei punti fondamentali della violenza domestica, l’abitualità, sostituita con la sistematicità, e questo quando ormai è acquisito che la violenza nei rapporti intimi ha sempre una andamento a singhiozzo, con periodi di calma e scoppi sempre più violenti in un crescendo a intermittenza. Una proposta che se passasse renderebbe impossibile punire la violenza domestica in quanto toglierebbe uno dei punti cruciali di quella dinamica, rimandando così le donne nelle mani dei propri torturatori e mettendole in ulteriore pericolo nel momento in cui denunciano in quanto il reato non verrebbe dichiarato tale senza sistematicità.
Ma sulla violenza contro le donne questo governo vuole fare qualcosa?
Più che cavalcare la violenza di genere quando avviene da parte di un offender straniero e dare in mano armi a chi vuole uccidere, non credo abbia fatto finora un granché. Salvini ha basato parte della sua propaganda elettorale sul corpo della povera Pamela Mastropietro, uccisa e sezionata a Macerata, e non si è fatto scappare l’occasione di inveire contro i migranti che hanno stuprato e ucciso la piccola Desirée Mariottini a Roma, strumentalizzando i corpi morti di queste ragazze per dare una percezione distorta della realtà. Sì, perché in Italia la violenza maschile sulle donne viene agita da maschi bianchi e per la maggior parte conosciuti dalla vittima, mentre solo il 15,1% è agita da stranieri. Una violenza che coinvolge nel mondo 1 miliardo di donne e ragazze, e che in Italia colpisce 7 milioni della popolazione femminile con un sommerso del 93%: una violenza che nell’80% del totale è violenza dentro le mura di casa e non per le strade. I femmicidi qui, secondo l’Eures, sono saliti al 37,6 per cento rispetto al 2017, quando erano al 34,8 per cento del totale degli omicidi commessi in Italia, con una incidenza più forte al nord (in Lombardia) e in città come Roma e Milano: donne che si ribellano al controllo maschile fino a rischiare la vita. Dal 2000 a oggi sono state uccise 3.100 donne con movente di genere, e di queste il 72 per cento sono state ammazzate da un partner o da un ex, mentre un terzo sono state uccise dopo aver subito violenza negli anni: come Violeta, una donna rumena madre di tre figli che a Sala Consilina è stata bruciata viva in casa sua dal marito italiano, un caso di cui i giornali hanno parlato dopo una settimana solo perché i social si sono indignati del loro silenzio davanti all’ennesimo femmicidio.
Ma i mezzi per contrastare questa violenza ci sono? Diciamo che ci sarebbero ma che non vengono attuati, probabilmente per una precisa volontà a non risolvere il problema. In Italia per esempio è disastrosa, come ci dice il Rapporto ombra redatto da 30 associazioni e presentato al Grevio, l’organo che controlla l’applicazione della Convenzione di Istanbul per il contrasto alla violenza maschile sulle donne nei Paesi che l’hanno ratificata (come il nostro). Curato da DiRe, la rete dei centri antiviolenza, il rapporto mette in fila i tre Piani antiviolenza varati in questi anni, sottolineando come la Convenzione di Istanbul, sostenuta dalla società civile malgrado sia stata redatta dal Consiglio d’Europa, non sia stata recepita fino in fondo dagli stessi governi che si sono succeduti: una convenzione che gli avvocati provano a citare nei tribunali davanti a giudici che si mettono addirittura a ridere (non tutti fortunatamente).
Per il rapporto “Lo Stato italiano ha prestato negli anni sempre più attenzione al tema della violenza nei confronti delle donne ma lo ha fatto quasi esclusivamente sul versante normativo ed in particolare sul versante della criminalizzazione delle condotte” ma non nella prevenzione e in ogni caso senza applicare fino in fondo le stesse normative approvate, come la stessa Convenzione mai del tutto implementata.
Donne non credute in tribunale e rivittimizzate, donne rimandate a casa dopo la denuncia in questura, donne non protette e per questo uccise dai loro partner, bambini uccisi per vedetta e mai tutelati, fatti che ancora leggiamo in cronaca nera per un semplice motivo: negligenza delle istituzioni che hanno creato “un vuoto che riguarda azioni concrete su tutto il territorio”. In Italia il contrasto al femminicidio funziona a macchia di leopardo con luoghi che sono all’altezza della situazione e altri che espongono le stesse donne alla violenza che subiscono. Un dato che ci chiarisce come uscire dalla violenza sia legato alla fortuna di chi incontri: non sufficienti i posti letto nelle case rifugio (siamo sotto di 5.000 rispetto agli standard europei), scarsa la formazione sia delle forze dell’ordine che del personale sanitario, per non parlare degli assistenti sociali o psicologi che usano nei tribunali l’alienazione parentale per colpevolizzare le madri anche in situazioni di evidente violenza e ricattandole con la sottrazione dei figli se non si mostrano accondiscendenti con i loro ex, spesso maltrattanti.
Per il rapporto “Il Governo appena insediato oltre ad avere una rappresentanza femminile minima”, non ha il Ministero per le Pari Opportunità, ma un “Ministero per la famiglia e la disabilità dichiaratamente contrario all’aborto e con posizioni reazionarie sui diritti LGBT”, mentre “la delega sulle Pari Opportunità è stata data a un uomo la cui competenza deriva dall’essere stato Presidente di UNICEF Italia”. Un governo che non ha nessuna intenzione di affrontare il cambiamento di una cultura sessista e misogina né tanto meno di attuare politiche di genere adeguate al raggiungimento delle pari opportunità necessarie a un vero contrasto alla violenza di genere, né ha intenzione di mettere in campo “tutti gli strumenti possibili per combattere la violenza contro le donne, supportandoli con i necessari finanziamenti e progetti economici a lungo termine”. A oggi i centri antiviolenza continuano con finanziamenti a singhiozzo che non tutelano la loro esistenza, invece necessaria, con soldi che non vengono stanziati (come i 30 milioni del Piano antiviolenza strategico 2017-2020) o dati col contagocce dalle Regioni.
In questi giorni il dipartimento pari opportunità, ha dato circa 11 milioni di euro a enti religiosi, associazioni sportive, tra cui la Nazionale cantanti, agenzie di comunicazione, lasciando all’asciutto i centri antiviolenza che nel 2017 hanno accolto 49.152 donne e che
sono l’unico baluardo reale di contrasto alla violenza maschile.