In nome di Atatürk e della Turchia che fu

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Guai a compiere un elogio acritico di Mustafa Kemal Atatürk, padre della Turchia laica di cui ricorre l’ottantesimo anniversario della scomparsa.
Guai a dimenticarsi delle sue responsabilità storiche, a cominciare dall’adesione al movimento dei Giovani turchi, del suo cinismo e dei tanti morti che si porta sulla coscienza. Fatto sta che, comparando Atatürk con il contesto attuale, non si può che provare nostalgia per una visione sostanzialmente progressista e votata alla crescita e allo sviluppo di un Paese che, invece, da quando Erdoğan ha imboccato la via dell’oscurantismo religioso, in nome di una concezione parodistica e strumentale dell’Islam, sta progressivamente tornando al Medioevo. Niente diritti, niente sviluppo, niente prospettive, niente cultura, niente conoscenza, meno che mai una qualche forma di libertà e di possibilità di sviluppare autonomamente la propria personalità: Erdoğan, in poche parole, costituisce l’abisso della Turchia, il suo punto più basso da otto decenni a questa parte, la devastazione di ciò che aveva faticosamente contribuito ad affermare Atatürk, la rinnegazione dei suoi princìpi e la sconfitta di ogni forma di dignità umana.
Atatürk agì con un coraggio che merita di essere riconosciuto, in una Turchia in ginocchio dopo la dissoluzione dell’impero ottomano e l’affermarsi di un nuovo ordine mondiale che, di fatto, la vedeva fuori dal novero delle nazioni di primo piano.
Seppe ricompattare il paese, senza dimenticare l’altissimo prezzo di sangue che la sua egemonia comportò, e si batté come un leone per modernizzarlo e condurlo verso il futuro, al punto che la Turchia è l’unica nazione a proposito della quale si è ipotizzato per anni un possibile ingresso in Europa. Di quell’eredità, oggi, non è rimasto più nulla, il che ci induce a riflettere sull’arida realtà di questo tempo costellato di addii.

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