Non ci si crede. Ma la maledizione dei tagli alle attività culturali non finisce mai. Da quelli ruvidi dell’allora ministro Tremonti in poi, con l’eccezione di Franceschini ma pure lui senza una reale strategia alternativa, la linea recessiva è diventata la normalità. La legge di bilancio, ora in discussione in parlamento, conferma la solita storiaccia. Eppure il ministro Bonisoli aveva esternato tutt’altro, al punto che si era alzata nel settore qualche voce di plauso e si diffondeva un certo ottimismo. Insomma, i patetici discorsetti sui “giacimenti” culturali, il Belpaese, il patrimonio artistico “unico al mondo” sono meno delle chiacchiere da bar. Parole, parole. Al dunque riemerge la filosofia profonda maturata negli anni dell’egemonia liberista: il mercato è tutto e la cultura è una noiosa spesa e non già un prezioso investimento. Indirettamente produttivo e anti-ciclico. In epoca di crisi economica e finanziaria il rilancio dello stato come “impresario culturale” sarebbe essenziale.
Purtroppo, salvo eventuali emendamenti durante l’iter delle camere, l’articolo 59 del testo (“Ulteriori misure di riduzione della spesa”) taglieggia diverse misure significative: i crediti di imposta previsti per librerie ed esercizio cinematografico (linea Netflix?) sono diminuiti di circa 6 milioni di euro. Di 20 milioni è sminuzzato il bonus per i giovani, giusto o meno che fosse. Prosegue la logica del commissariamento delle fondazioni lirico-sinfoniche. E chissà che fine farà il tax credit per cinema ed audiovisivo, legato a scelte tuttora incerte. Anzi. Il difetto della riforma del cinema del novembre del 2016, sotto l’egida proprio di Franceschini, è –tra gli altri- di aver rinviato ad una sequenza davvero eccessiva di decreti attuativi e di regolamenti l’effettiva entrata in vigore di taluni dei punti cruciali del testo. Le disposizioni sulle quote obbligatorie di investimento da parte delle emittenti televisive nella produzione cinematografica ed audiovisiva e la complessa normativa (pur monca e indefinita) sul tax credit rimangono appese ad un filo esile.
Perché mai un simile stillicidio? Eppure la domanda ci sarebbe, come ha ben spiegato il rapporto annuale di Federculture. I consumi aumentano del 3,1% sull’anno scorso, pur con una forte disparità tra nord e sud. Ciò significa che un’oculata politica di investimenti potrebbe dare luogo ad un vero e proprio salto di qualità. E’ assurdo, dunque, che la legge di bilancio sia la noiosa e amara riedizione di una tendenza dura a morire.
Forse, però, l’attuale compagine “gialloverde” non ha interesse per un incremento della consapevolezza di massa, figlia di istruzione e di diffusione dei saperi. Trionfa l’era della soggezione alla dittatura degli algoritmi su cui si reggono i social. In crisi la lettura di libri e di giornali , travolte le sale dal travolgente successo del video on demand, umiliate scuola, università e ricerca: il futuro è segnato. L’abbattimento delle varie forme di intermediazione lascia sul campo morti e feriti. E sì, perché ai tagli corrispondono disoccupazione e impoverimento di un sistema ormai allo stremo.
Senza parallelismi meccanici, va ricordato che l’attacco al “culturame” è stato (ed è) un tratto distintivo della nascita degli autoritarismi, magari in salsa digitale.
E’ proprio il momento di rilanciare gli obiettivi della giornata di mobilitazione del 6 ottobre. Contro la macelleria attuata dai governi presieduti da Silvio Berlusconi l’iniziativa si fece sentire. E ora?