Gli elementi che avrebbero potuto costituire e sviluppare un’atmosfera di gelida deriva a due, poi a quattro e infine a cinque, con duelli verbali sottili quanto cruenti, erano molti e potenzialmente interessanti. Una serata afosa d’estate funestata dalla presenza di nugoli di zanzare, un ristorante di campagna con stanze a vista strutturato su due piani uniti da una scala, un dehors sospeso nella notte coperto dai resti scheletrici, lignei, di quello che in un’altra stagione era stato probabilmente un pergolato. Uno stagno poco distante, affollato di rane che con il loro gracidare fastidioso evocano il punto di stasi cechoviano di esistenze involute e smaniose. Un parcheggio (scopriremo alla fine che ce ne sono addirittura due, situati ai lati opposti del ristorante; una delle tante simmetrie belligeranti caratteristiche di Yasmina Reza) dove si è fermata l’auto di due amanti, lui imprenditore avventato lei farmacista, anzi addetta ai preparati galenici. A bordo, la radio accesa trasmette musica banale.
Fra i due che non si guardano dentro l’abitacolo, i volti parzialmente illuminati dai fari accesi, si avverte la presenza invisibile dell’estraneità e del rancore farsi sempre più densa e viva. Quando scendono, iniziano da parte di Andrea, barcollante di alcol e codeina, quasi disarticolata nei movimenti, una serie di dispettucci queruli, tra il farfugliante e l’isterico, segnati da frustrazione e immaturità emotiva e travestiti da gioco infantile o adolescenziale: spruzzare il repellente antizanzare negli occhi dell’uomo, provocarlo chiedendo notizie della moglie, vantarsi di un nuovo amante ventiseienne, mentre il panico del tempo che passa stendendo una patina opaca sul corpo scava solchi sotto le parole. Boris invece, ancor più lamentoso e spaventato, confessa di trovarsi sull’orlo del fallimento a causa di una partita di verande fuori norma, notizia accolta da Andrea, autoreferenziale come lui, come tutti i personaggi di Reza, con una certa esibita indifferenza.
A innescare ciò che (non) avverrà successivamente è l’anziana Yvonne che, vagando incauta nel parcheggio, viene investita senza conseguenze dalla macchina di Boris e Andrea. La garbata signora, sormontata da una piumosissima capigliatura grigia, viene subito raggiunta dal figlio Eric, irritabile e spicciativo, e dalla nuora Françoise, amica d’infanzia della moglie di Boris, puntuta e perbenista. Si trovano lì per festeggiare il compleanno di Yvonne con ostriche e gâteau di frutti di mare, circostanza celebrativa che dà modo alla signora di far schiumare intorno ricordi, particolari della propria vita, fra cui la vaporosa dipendenza dalla morfina, e annotare pensieri disorientati e minuzie varie sull’inseparabile taccuino di pelle di struzzo. Taccuino che per errore finirà nel water del bagno (stanza parecchio frequentata nella commedia), e sarà eroicamente ripescato da Andrea. Yvonne è consapevole di scivolare giorno dopo giorno lungo un vetro di insidie senili, e ne discorre come una disgrazia terribile ma inevitabile, con grazia minimalista e una sfumatura, un accenno appena udibile, di sgomento. Ancora pochi passi e troveremmo la resistenza disperata di Winnie, la sua loquacità senza soste che si oppone alla sabbia del deserto, il grazioso parasole, la borsetta con la pistola e il grido finale: è passata un’altra bella giornata, dopotutto.
E’ un peccato che la regia inerte, priva di risonanze, e la modestia di due degli interpreti non permettano al dio della carneficina di scatenare la sua crudeltà gratuita e deformante. Il materiale drammaturgico si ripiega su stesso, rendendo vane le sottigliezze dell’autrice e scadendo o nel tono boulevardier, o nella parodia involontaria dell’Actors Studio. Roman Polanski resta un modello più lontano dell’Orsa Maggiore invano osservata da Andrea.
Scheda spettacolo:
Paolo Calabresi
Lucia Mascino
David Sebasti
e con
Simona Marchini