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Quando il giornalista si racconta… Dopo Gramellini, Floris e Gruber escono in libreria  Cazzullo, Cotroneo e Severgnini

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Quando i giornalisti si raccontano: è una buona cosa o un sintomo preoccupante? Un segno dei tempi o declino inarrestabile di una professione?           Nel breve volgere di una stagione editoriale, alcuni fra i più noti e apprezzati giornalisti italiani della carta stampata, hanno scritto in prima persona parlando al lettore come a caro amico. Massimo Gramellini, uomo di penna e di video, ha raccontato di sé in Fai bei sogni, di qualche anno fa; più recentemente Giovanni Floris è tornato a sedersi all’Ultimo banco (il titolo del suo nuovo libro) per raccontare, sì, la scuola italiana ma anche  se stesso, lui privilegiato “figlio della Floris”, severa ma amata professoressa d’italiano.  Oggi nel libro omonimo Aldo Cazzullo fa dire ai suoi personaggi, e quindi anche a se stesso, che “Giuro che non avrò più fame” rievocando l’Italia del 1948, della ricostruzione Anche Beppe Severgnini è in libreria con Italiani si rimane, edito da Solferino, un memoir dall’incipit commovente: “Il mio primo articolo è uscito domenica 21 gennaio 1979 su La Provincia di Cremona. Avevo ventidue anni…”. E Roberto Cotroneo torna in libreria per i tipi La nave di Teseo con il suo affascinante Niente di personale che comincia: “Quando arrivai a Roma nel 1984, la redazione dell’Espresso era in via Po, al civico 12” .

Tempi duri per i giornalisti. Ne muoiono parecchi sui fronti di guerra e negli agguati del terrorismo, i giornali sembrano poter fare a meno dei redattori, tanto pochi e saltuariamente ne assumono, è diventata una professione più d’immagine che di contenuti, piace ancora alle ragazze carine che puntano al video. Oltre alla carta stampata minacciata dall’online, c’è ancora la televisione che con i suoi innumerevoli telegiornali e programmi di approfondimento manda in video, accanto ai soliti noti, anche volti nuovi che una volta avrebbero fatto al massimo i cronisti di nera in un quotidiano della sera. Il turn over delle facce è velocissimo, talvolta a danno della qualità dei programmi, ma con le dovute eccezioni: nella Lilli Gruber di Otto e mezzo sulla Sette rivedi tutte le sere la severa conduttrice del TG 2 che contestava il direttore Mimun, e che oggi sorridente domatrice tiene e bada straripanti grillini e arroganti leghisti. Ma non solo video: per la brava Lilli (all’anagrafe Dietlinde) la rubrica delle lettere su 7 e un libro sul suo Alto Adige. In crisi il giornalismo d’inchiesta, anche qui con una doverosa eccezione: Milena Gabbanelli ieri con il suo Report, oggi con Data Room sul Corriere della sera e 7.

Giornalisti bravi al lavoro, dunque, ma non senza difficoltà. Sempre meglio così di come vorrebbero i nostri due ineffabili vice presidenti del consiglio, secondo i quali “i giornali non li legge più nessuno, quindi vanno chiusi”. Quello di imbavagliare la stampa è un vecchio vizio di tutti quelli che vanno al potere senza meritarlo e temono ogni giorno di perderlo: dai dittatori ormai passati alla storia, come Hitler o Stalin, dai sudamericani ai mediorientali, dal Cicciobomba (copyright Gramellini) nord coreano ai cinesi. A Mussolini nato giornalista dispiaceva chiudere i giornali: si comportò diversamente e con le veline quotidiane spedite da Achille Starace ai direttori dei giornali addomesticati non fece che precorrere i WhatsApp che l’odierno portavoce di palazzo Chigi, un ex del “Grande  Fratello”, manda a deputati e senatori di governo per controllare i loro contatti con i giornalisti prima che questi scrivano di grillini e di Lega.

Tempi duri per i giornalisti. La denuncia da codice penale per diffamazione aggravata in quanto a mezzo stampa è sempre in agguato, e chi ne è stato già scottato si guarda bene dal correre altri rischi. L’ultimo è Marco  Travaglio per aver offeso Renzi senior. Chi finora l’ha scampata ci pensa due volte prima di scrivere cose che una volta, quando in Italia la democrazia non era una parolaccia, si potevano dire senza tema. I Montanelli, i Bocca, i Biagi erano ossi duri da ammorbidire. Oggi non è più così. Come minimo, a fermare la penna che si annuncia corrosiva arriva lo spauracchio della legge sulla privacy, in nome della quale non potresti scrivere manco una riga che non sia un reportage sul riscaldamento globale. Ma anche li, attenti che Donald Trump non gradisce.

Ecco, forse, perché tanti bravi giornalisti hanno ripiegato sul privato con preziosi, piccoli amarcord che non danno fastidio al potente di turno e comunque piacciono a chi ama leggere giornali e libri. Se Dio vuole ce ne sono ancora tanti in Italia, vedi il libro di Totti in testa alle classifiche (ma questo è un altro discorso).

Roberto Cotroneo, che ha cominciato da giovane alle pagine culturali del sulfureo Espresso di Caracciolo e che negli a venire ha puntato tutto sulla cultura, la poesia, i romanzi, i saggi, perfino la fotografia, oggi è di nuovo in edicola con Niente di personale, un memoir da leggere non tutto d’un fiato, come si dice dei polizieschi ansiogeni, ma con tutta calma, pieno com’è di volti, di nomi, di fatti, andreottianamente visti da vicino, lui che quando faceva sul serio il giornalista non se li faceva raccontare perché c’era. Si consiglia una lettura con ritmi da passeggiata, da bere a piccoli sorsi come un vino invecchiato, per cercare di scoprire il segreto del titolo: davvero niente di personale? Mentre te lo chiedi sulla faccia dell’autore ti immagini il sorriso beffardo della Gioconda.

Perché i giornalisti scrivono delle loro cose private, l’infanzia, la carriera, il successo, il tramonto?  Risponde uno per tutti: perché dopo aver passato la vita a scrivere degli altri, viene voglia di raccontarsi, per la moglie, per i figli, per i nipoti, che poi non è detto che leggeranno.   Ma qui siamo nella narrativa, il giornalismo è un’altra cosa: scovare la notizia, accertarne la veridicità, scriverne in modo chiaro, essenziale, con lodevole senso della sintesi, in modo da farsi capire dal portiere e dal professore universitario; oppure andare “sul posto”, a vedere con i propri occhi il fattaccio di nera, la guerra appena scoppiata, il record del mondo appena battuto, intervistando i protagonisti più che i passanti, scattando qualche fotografia e portando a casa, cioè in redazione, quanto serve per un pezzo esauriente che attiri fin dal titolo l’attenzione del lettore, anche il più distratto. Una volta c’erano gli inviati, sempre detti “speciali”, oggi notizie e immagini ci arrivano dalle grandi agenzie di   stampa, le sole che abbiano ancora bisogno di un inviato, anche se non proprio speciale. Una volta c’era la nota politica, il “pastone”, l’approfondimento: oggi basta mettere un microfono in faccia al deputato, al senatore, al presidente, all’amministratore delegato o chiamarli a turno in studio e, voilà, l’utente è servito.          Sarà sempre così? Chissà. Intanto i giornalisti bravi scrivono di cose loro. E lo fanno bene.  Cominciò George Simenon, dopo oltre duecento fra racconti e romanzi e dopo aver messo al mondo Maigret, a raccontarsi fin dalla più tenera infanzia senza tralasciare un solo titolo, un solo gesto, un solo amore. E anche lui era nato giornalista, cronista di nera in una gazzetta di Liegi e non se l’è mai dimenticato.

Chi legge i giornali e ama i libri sta, dunque, vivendo una stagione d’oro: in libreria trova oggi le firme migliori del giornalismo di qualità. E qui ne abbiamo dato qualche esempio. Non è sempre stato così: dei Bocca, Biagi, Montanelli, Luca Goldoni, per dire dei grandi di ieri, gli editori raccoglievano in volume gli articoli più importanti e i loro lettori ne riempivano gli scaffali della biblioteca di casa con gioia inversamente proporzionale allo spazio occupato.

Che fine hanno fatto quelle collane, insieme con i volumi dell’Enciclopedia dello spettacolo o dei Maestri del colore? La stessa fine che hanno fatto i filmini a otto millimetri delle vacanze al mare, le cassette VHS con i grandi del cinema, i 45 giri da far ingoiare al mangiadischi a batteria. Oggi in un DVD c’è tutto questo e molto altro. Ed eccoci ricaduti nell’amarcord domestico. E’ proprio vero: come il mezzo toscano e la Croce di cavaliere di Vittorio Emanuele II, anche l’autobiografia non si nega a nessuno.


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