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Minacce a Report: guai parlare delle mafie nel calcio

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Da settimane  la redazione di Report e il suo inviato Federico Ruffo sono bersaglio di un fuoco di fila di indiscrezioni, avvertimenti più o meno velati, insulti perché si osa parlare (ma come non si sa, visto che l’inchiesta non è ancora andata in onda) della signora del calcio, la Juventus.
Ma è questo il vero motivo dell’acredine, per non dire odio, espresso da centinaia di post sui social, e spesso rilanciati, bisogna dirlo, in modo quanto meno imprudente anche da settori dei media specializzati? Si difende la Juve o altro?
A fare chiarezza sono arrivati ieri sera due tweet illuminanti. Fanno seguito al lancio di un’anticipazione video della testimonianza di un boss del calibro di Placido Barresi, considerato per trent’anni uno dei capi delle cosche torinesi. A lui le famiglie calabresi che si erano infiltrate nella curva della Juventus avrebbero chiesto (secondo i magistrati) di fare da paciere per trovare un accordo nella gestione del bagarinaggio. Barresi offre a Report anche il suo punto di vista sul suicidio di Raffaello Bucci, l’ultrà assunto dal club per mantenere i rapporti tra dirigenza della Juve, tifoserie e forze dell’ordine. Bucci si era ucciso gettandosi da un viadotto il 7 luglio del 2016, dopo aver testimoniato in Procura. Barresi sostiene che ci sia stata istigazione al suicidio, con la minaccia di prendere il figlio di Bucci.
Ma, curiosamente, a disturbare non è la tesi sull’unica morte della storia (per quanto strana e non chiarita fino in fondo, tanto da costringere la procura di Cuneo a riaprire il fascicolo), bensì un passaggio della testimonianza su un particolare episodio che ha visto l’entrata nella curva dello Juventus stadium di un nuovo striscione, “I Gobbi”, il 20 aprile 2013,  accompagnato dal ruolo crescente di Rocco Dominello, figlio, all’epoca incensurato, di Saverio, boss di ‘ndrangheta della cosca Pesce-Bellocco. Barresi dice (e se ne assume la responsabilità): “guardi che a un certo punto mica entrano solo i Dominello, lì: entra tutta la Calabria unita, eh.” Proprio questo passaggio provoca i due tweet citati indirizzati all’autore: “Badi lei e Report a cosa dite in tv: 1. non c’è nessuna “Calabria” nella Juve perché sono frasi fatte per gonfiare la realtà; 2. non c’è stato nessun suicidio “per paura”; 3. trattasi di depistaggio; 4. Attenzione a chi si intervista ed a cosa si pubblica e perché“. E poi ancora: “in tutti i casi ci sono persone destinate al cimitero. Non sono ammesse interviste a soggetti assolutamente poco attendibili, ai quali le consiglio di riferire che è meglio che stiano lontano dai miei interessi altrimenti a volare giù dai ponti sanno (sic, forse intendeva “saranno”) in molti. Ok?
Non servono commenti. Sulla presenza, tra gli  ultras, della “Calabria” (che non significava cittadine e cittadini calabresi che hanno l’unica colpa di condividere la provenienza con pochi, anche se potentissimi, criminali) si possono leggere le migliaia di pagine, pubbliche, dei fascicoli e delle sentenze, di primo e secondo grado, dell’inchiesta Alto Piemonte, che riprende anche parti delle precedenti inchieste sulla presenza stanziale e consolidata della ‘ndrangheta in Piemonte, nei gangli più strategici di economia e società.
Ma meritano di essere lette con attenzione le 96 pagine della Relazione “Mafie e calcio”  della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle mafie della passata legislatura (ripresa sinteticamente nella relazione conclusiva complessiva), che ha preso in esame tutto il mondo del calcio, soffermandosi su diversi casi emblematici. Tra cui, appunto, la Juventus. Alcuni passaggi sono illuminanti: “Dall’inchiesta emerge un quadro molto preoccupante di infiltrazione ‘ndranghetista nei gruppi di tifosi organizzati della Juventus, che deve suonare come qualcosa di più di un campanello di allarme non solo per la società torinese ma  anche per tutte le altre squadre e per i rappresentanti delle istituzioni del calcio.”
Il calcio, spiega la Relazione, muove interessi economici immediati, certo, ma anche occasioni per riciclare denaro sporco infiltrandosi negli stessi assetti societari delle squadre (soprattutto per le minori) e, infine, terreno per costruire consenso. Quest’ultimo punto, mai preso davvero in esame, è quello però più sensibile per la nostra democrazia: consenso, infatti, significa anche potere elettorale, significa potere di pressione sulle istituzioni, locali e nazionali, significa anche, in ultima analisi, spingere migliaia di tifosi, o sedicenti tali (quanti “bot” tra loro?) a inondare di insulti i profili di programmi e giornalisti che osano mettere in fila fatti. Senza la pretesa di essere esaustivi di un fenomeno. Ma se la “notizia” c’è ed è di interesse generale, pubblicarla è d’obbligo. Se ne faccia una ragione il twittatore minaccioso: i giornalisti responsabili vanno avanti comunque..

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