“Il mondo arabo sta vivendo la sua versione della cortina di ferro, imposta non da attori esterni ma da forze domestiche che competono per il potere. Per questo è necessaria una versione moderna dei vecchi media trasnazionali in modo che i cittadini possano essere informati degli eventi globali. E cosa ben più importante, abbiamo bisogno di una piattaforma per le voci arabe”.
Con questo editoriale sulla libertà di espressione, l’ultimo suo scritto per il Washington Post, Jamal Kashoggi proponeva un’analisi sulla situazione dei media nel mondo arabo.
Il quotidiano statunitense lo ha pubblicato per ricordare l’impegno del giornalista saudita, scomparso dopo essere entrato il 2 ottobre nel consolato del suo Paese a Istanbul, sul tema dei diritti dell’informazione.
Il reporter attraverso il suo articolo lanciava un appello alla libertà di stampa in Medioriente.
Il giornale ha spiegato di avere ricevuto lo scritto dal traduttore e assistente di Khashoggi un giorno dopo la notizia della sua scomparsa e di avere aspettato a pubblicarlo perché sperava che sarebbe tornato e magari avrebbe potuto fare delle modifiche.
“Questo purtroppo non succederà. Dobbiamo accettarlo: Jamal non tornerà” ha scritto una collega e amica del giornalista saudita, Karen Attiah.
Il 2 ottobre Khashoggi, che risiedeva da tempo negli Usa in auto-esilio, era andato al Consolato dell’Araboa Saudita in Turchia per delle pratiche amministrative in vista del matrimonio con la fidanzata turca. Aveva un appuntamento quindi le autorità saudite sapevano che quel giorno sarebbe stato lì.
Secondo l’intelligence della Turchia, l’uomo sarebbe stato ucciso proprio all’interno della sede diplomatica. Dalle ricostruzioni della stampa turca, basate sulle indiscrezioni filtrate dalla polizia di Istanbul, gli investigatori sarebbero in possesso di registrazioni video e audio dell’interrogatorio a cui Khashoggi era stato sottoposto nel Consolato. Orribile ciò che emerge dalle notizie, per ora, ufficiose: torturato, ucciso e fatto a pezzi Khashoggi sarebbe infine stato sciolto nell’acido.
Per il reporter saudita si è subito mobilitato sia il mondo dell’informazione e degli organismi di tutela degli operatori dei media che le organizzazioni per i diritti umani.
Il Comitato per la protezione dei giornalisti, Human Rights Watch, Amnesty International e Reporter senza frontiere hanno insieme sollecitato la Turchia a chiedere al Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, l’avvio di un’indagine Onu sulla possibile esecuzione extragiudiziale di Khashoggi.
Ma Guterres è stato chiaro: un’inchiesta sul caso potrà iniziare solo se tutte le parti coinvolte lo chiederanno o se ci fosse un mandato legislativo da parte di un organo delle Nazioni Unite.
Attraverso il portavoce del Palazzo di Vetro, Stephane Dujarric, il segretario generale seppur chiedendo egli stesso all’Arabia Saudita di fare chiarezza al più presto sulla vicenda ha lasciato poche illusioni sulle possibilità che la richiesta di Cpj e delle organizzazioni per i diritti umani possa avere corso. Almeno per ora.
Intanto continuano a susseguirsi le reazioni nei confronti del regno saudita per l’affaire Khashoggi. Tra i primi a prendere una ferma posizione i britannici che attraverso il ministro del Commercio Estero, Liam Fox hanno annunciato che la Gran Bretagna non parteciperà al forum sugli investimenti nel Paese del Golfo previsto a Riad la prossima settimana. Oggi ad annullare la sua partecipazione a “David nel deserto” il segretario al Tesoro Usa Steven Mnuchin, l’ultimo, in ordine di tempo, e il più importante ospite previsto al forum a dare forfait.
Comincia a profilarsi, inoltre, il possibile scenario nel caso che la monarchia saudita fosse costretta ad ammettere l’uccisione di Khashoggi: Riad sarebbe pronta a incolpare dell’assassinio del giornalista un alto funzionario dell’intelligence vicino al principe ereditario Mohammed bin Salman. Si tratterebbe del generale Ahemd al-Assiri, secondo quanto riportato dal New York Times, uomo di punta dei servizi sauditi e consigliere della corona.
Niente di più di un capro espiatorio per permettere al Regno di porre un freno alle ritorsioni da parte di partner fondamentali che non potrebbero chiudere gli occhi di fronte alle prove dell’omicidio di Khashoggi, soprattutto se avvenuto come sembra ormai assodato all’interno del Consolato.