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Le ragioni del servizio pubblico
sono oggi più importanti di ieri

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Utilissima la riflessione aperta da Giuseppe Giulietti sulla Rai. Il servizio pubblico radiotelevisivo è da tempo in crisi. Né la “cura montana” è sufficiente. Facciamo i migliori auguri al nuovo tandem (Tarantola-Gubitosi) al comando, ma diventa indifferibile una vera riforma. Ivi compresa l’abrogazione della legge Gasparri. Ed ivi compresa una seria regolamentazione del conflitto di interessi.

Ed è necessario andare al di là della pur delicata questione della governance. Quest’ultima è indubbiamente rilevante, ma i temi cruciali sono almeno tre e vengono prima del resto: qual è la ragione storica che rende ancora vitale l’idea del servizio pubblico esaurita la stagione della finitezza delle risorse tecniche; qual può essere l’impianto culturale della (ancora) maggiore azienda della conoscenza del paese; quale sarà il ruolo dell’apparato pubblico nell’era digitale e crossmediale.

Le ragioni del servizio pubblico sono oggi più importanti di ieri. Proprio perché non esistono più motivi di ristrettezza tecnologica, è decisivo il valore etico del “pubblico”, vera bussola dell’età dell’offerta “eccedente” e spesso confusa.

La Rai può diventare un utilissimo “navigatore” nell’epoca della rete, contribuendo ad introdurre su scala di massa i nuovi alfabeti elettronici ed informatici. Ed a introdurre la logica del software aperto.

La Rai come bene comune si usa dire, appunto.

Inoltre, c’è un vuoto culturale impressionante: da colmare con un impegno straordinario nella costruzione di  linguaggi e di stili appropriati, interattivi, in grado di dialogare con i “nativi digitali”.

Serve un rilancio dell’anima profonda del servizio pubblico, che intenda guardare all’antropologia dell’Italia, alle parti sensoriali e comunicative del paese. L’omologazione si rompe non con il ricorso al populismo tribunizio, bensì con la coscienza critica diffusa. Il territorio è il valore aggiunto della Rai e va coinvolto assai di più.

Infine, la questione tecnica. Che spreco in questi anni. La Rai fu all’avanguardia della ricerca, L’alta definizione, lo stesso digitale furono “scoperti” nel laboratorio di Torino. Eppoi …. la crisi di prospettive, senza altri perché se non il basso compromesso con Mediaset. La Rai si è sobbarcata l’onere di fare da apripista della transizione al digitale, investendo milioni di euro e rompendo (per non disturbare il recente “manovratore”) con Sky. Ora si propone un’opportunità straordinaria, con le reti di nuova generazione. Rai way è una risorsa straordinaria, un assist da riprendere in mano seriamente, senza tentazioni di vendita-svendita. Il futuro del servizio pubblico sta nell’universo multimediale.

In questo senso, è impressionante la discrasia tra la fisionomia antica delle reti e delle testate (pensata nell’analogico e al cospetto di un ben diverso sistema politico) e la stagione dell’all news e del tempo reale. L’ex consigliere Nino Rizzo Nervo ha aperto un dibattito sull’attualità della nomenclatura “TG1-TG2-TG3”. Ha ragione. La discussione va ripresa senza pre-concetti. E la testata regionale? Così davvero non regge, come – per altri versi – non ha senso privarsi proprio delle sedi di corrispondenza all’estero.

P.S. Il caso Sipra è emblematico due volte. I mancati introiti dalla pubblicità sono la prova provata del conflitto di interessi e della sudditanza della Rai. Così come l’affidamento a Lorenza Lei di un nuovo ruolo proprio alla Sipra è un sintomo dell’inerzia del vecchio corso.

Il berlusconismo è duro a morire  ….


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