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L’abisso di Davide Enia in scena al Teatro India

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Siamo nel Mar Mediterraneo, a Lampedusa. Il racconto di un sommozzatore, il mar Mediterraneo, un mare contro il quale a Lampedusa ci si trova a lottare quasi quotidianamente per strappargli via corpi che altrimenti risucchierebbe, trascinandoli nell’abisso. Corpi riversi, domande urgenti “Se hai tre uomini davanti a te e una donna e un bambino poco più in là e tutti stanno contemporaneamente affogando, chi salvi? In mare vige la legge dei numeri e tre è maggiore di due”.

E’ così che apre L’Abisso di Davide Enia – al Teatro India di Roma dal 9 al 27 ottobre – una produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Teatro Biondo di Palermo, Accademia Perduta/Romagna Teatri.

Tratto dal volume “Appunti per un naufragio” (edito da Sellerio, Premio Mondello 2018) che lo stesso Enia ha scritto in presa diretta da Lampedusa, lo spettacolo è in racconto urgente ed attualissimo della tragedia dei migranti del mare – donne, uomini e bambini pronti ad attraversare il mare in cerca di un’opportunità o per sfuggire a guerre e carestie – quel mare che spesso li inghiotte, e quello interiore di Davide, un uomo di mare (palermitano) scrittore, interprete e regista di se stesso.

“Quando ho visto il primo sbarco a Lampedusa, ero assieme a mio padre. Approdarono tantissimi ragazzi e bambine. Era la Storia quella che stava accadendo davanti ai nostri occhi, la Storia che si studia nei libri, che riempie le pellicole dei film e dei documentari e che modifica la struttura del presente. Nell’arco di diversi anni, continuavo a tornare sull’isola, costruendo così un dialogo continuo con i testimoni diretti, i pescatori e il personale della Guardia Costiera, i residenti e i medici, i volontari e i sommozzatori. Parlavamo quasi sempre in dialetto, nominando i sentimenti e le angosce, le speranze e i traumi secondo la lingua della nostra culla, usandone suoni e simboli. In più, ero in grado di comprendere i silenzi tra le sillabe, quel vuoto che frantuma la frase consegnando il senso a una oltranza indicibile. In questa assenza di parole, in fondo, ci sono cresciuto. Nel Sud, lo sguardo e il gesto sono narrativi e, in Sicilia, ‘a megghiu parola è chìdda ca ‘un si dice, la miglior parola è quella che non si pronuncia”.

Le parole dei testimoni prendono vita, a volte in italiano, altre in dialetto, fondendosi alla storia di Davide, quella di suo padre, quella di suo zio Beppe che sta combattendo con coraggio la sua battaglia con la malattia, lasciando ora spazio ai canti dei pescatori e al cunto palermitano, una litania che diventa quasi una preghiera, carica di rabbia quando assieme al pescato nelle reti si ritrovano cadaveri di uomini, donne e bambini. Davide Enia porta in scena tutto questo senza traccia di retorica, con un linguaggio asciutto, essenziale, ma al contempo tagliente, commovente, capace di una potenza emotiva ed evocativa sorprendente, accompagnato dalla partitura musicale scritta ed eseguita alla chitarra da Giulio Barocchieri. Come il mare prende a calci e pugni i soccorritori durante la tempesta, così Enia con il suo racconto è un pugno nello stomaco di quanti, come noi, assistono purtroppo indifferenti al perpetrarsi di questo dolore.


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