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La democrazia battuta e mortificata per 289 volte

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di Claudio Cavaliere

Ci sono voluti quarantacinque anni di storia repubblicana per dotarsi di uno strumento di difesa contro l’invadenza della criminalità organizzata nella democrazia locale. Quasi mezzo secolo di sdegnoso disinteresse ha prodotto quella storia mancata che costringe oggi a sciogliere per mafia pezzi dello Stato, il cuore politico del rapporto istituzioni-cittadini: i Comuni appunto.
Una statuaria indifferenza crollata di colpo. Di colpo, nel 1991 nasce il fenomeno, quasi si fosse stati colti alla sprovvista. Come se prima la mafia, nelle sue varie declinazioni regionali, non avesse già gestito direttamente istituzioni, risorse, enti pubblici e quant’altro.
Questione di priorità, se è vero che la Repubblica dei primi decenni si pensò di difenderla rimuovendo Sindaci e inibendoli dall’elettorato passivo per anni con l’accusa di avere firmato appelli contro la bomba atomica, promosso dibattiti e manifestazioni di protesta contro i governi in carica o di avere solo espresso valutazioni ritenute non conformi. Massimo Severo Giannini scrisse di quei decreti come “offese all’intelligenza” e “buoni per la storia dell’umorismo prefettizio” e il sindaco di Bologna Dozza coniò nel 1951 l’espressione “il reato di essere sindaco”, per denunciare le condizioni in cui erano costretti ad operare i sindaci di sinistra.
Certo il “puzzo acre di guerra civile” denunciato da De Gasperi fece orientare l’attenzione occhiuta e assillante dei prefetti esclusivamente verso le amministrazioni locali di sinistra considerate sediziose e pregiudizievoli per l’ordine pubblico mentre i Comuni siciliani sparirono dai radar dell’attenzione del ministero dell’interno protetti dal velo dell’autonomismo.
Eppure già dopo le prime elezioni comunali del 1946 i casi di municipi in cui è evidente la gestione diretta della criminalità organizzata sono innumerevoli, ma solo per un paio di eclatanti episodi c’è traccia dell’intervento del ministero senza mai pronunciare la parola mafia che allora formalmente non esisteva. Quando nel 2016 viene sciolto per infiltrazioni il comune di Corleone i cognomi richiamati nella relazione del decreto sono quelli degli anni ‘50 citati dalle prime commissioni parlamentari antimafia, a conferma che l’infeudamento mafioso nei municipi non è una invenzione sociologica ma una condizione stabile che si misura nel tempo nella capacità di competere e di autorappresentarsi all’interno dei meccanismi codificati della democrazia locale.
Sarà la mattanza degli anni ottanta e la circostanza che decine di consigli comunali sono zeppi di diffidati di P.S. a mettere fine a quella finzione. Ancora una volta sarà il sangue a dettare il tempo della reazione, con la politica costretta ad inseguire gli avvenimenti, a tenere il conto di oltre sessanta amministratori locali uccisi i cui nomi si fa fatica ancora oggi a ricordare.
La legge del 1991, che prevede lo scioglimento dei consigli comunali per infiltrazioni mafiose, non riscosse l’interesse del Parlamento. Più volte, durante le votazioni sui singoli articoli, mancherà il numero legale e alla votazione finale parteciperanno giusto i deputati necessari per farla approvare.
Una delle poche verità di questa legge è la rimozione di una finzione, quella della rappresentanza politica derivante dalle elezioni come indicatore sufficiente di democraticità. In sostanza si riconosce che un organo elettivo può non essere democratico. Ma lo fa utilizzando due concetti autoassolutori, quello di “infiltrazione” e “condizionamento”, incapaci di leggere e di vedere la criminalità organizzata impadronirsi dei meccanismi della democrazia e di conseguenza legittimarsi con il consenso come forza di governo. Le organizzazioni criminali non hanno bisogno di creare istituzioni parallele, l’esistente serve benissimo allo scopo. Si può vivere ed operare all’interno delle funzioni dello Stato senza dover rinunciare alla propria storia criminale. Si tratta di una vera e propria “ibridazione” delle istituzioni che avviene con regole e leggi che rimangono apparentemente il principio organizzatore della vita delle comunità.
Da allora oltre un quarto di secolo non è bastato per impedire, o semplicemente per porre un argine all’occupazione mafiosa dei Comuni.
In quel lontano 1991 c’era consapevolezza nel relatore della legge che in aula affermava: “[…] stiamo raschiando il barile […] perché le altre strade per risolvere il problema richiedono un qualcosa che a me sembra più difficile, e cioè un’autoriforma del potere politico. […] Di conseguenza, si è costretti ad usare strumenti legislativi, laddove sarebbero molto più incisivi e più correttamente applicabili in una dialettica democratica gli strumenti della politica.”
Continuando a negare che il problema sta dentro il funzionamento della democrazia, nella raccolta del consenso, significa non trovare le vere contromisure se non i reiterati scioglimenti accompagnati da un dibattito stantìo, buono a riconoscere il radicamento della mafia ma senza essere conseguenti per procedere alla sua rimozione nelle strutture politiche, sociali e civili.
Il colore politico delle amministrazioni disciolte per mafia non è mai stato una discriminante. Il 29% erano di centro-destra, il 21% di centro-sinistra, il 40% liste civiche, il resto in prevalenza monocolori di centro (9%). Neanche la demografia è una discriminante: il 32% sono piccoli comuni, dato che smentisce la tesi per cui il taglio demografico non renderebbe credibile l’interesse della mafia per comuni con bilanci minuscoli. Una teoria ingenua, che trascura l’omogeneità di funzioni tra piccoli e grandi e che ampi settori della vita locale dipendono dalla regolazione pubblica: appalti, urbanistica, licenze, usi civici, boschi, pascoli, e quant’altro sono settori a completo controllo locale.
Dei 289 comuni sciolti per infiltrazioni mafiose (al netto degli annullati) 53 hanno bissato o triplicato lo scioglimento a dimostrazione che la legge, che cerca di offrire una risposta attraverso la ripetizione delle elezioni come generatrice di una dinamica di responsabilizzazione, non funziona.
Come un fastidioso moscone che sbatte contro i vetri della finestra senza trovare la via d’uscita, i ripetuti scioglimenti confermano che il problema non risiede nelle norme quanto nel sistema politico in cui hanno un peso rilevante la mancanza di partecipazione partitica (specie nei piccoli comuni) e l’irrisolto problema della scelta e selezione dei candidati, in una parola la cultura politica locale, ossia il sistema di relazioni che agisce nel contesto storico-territoriale su cui non c’è ormai più alcun intervento della politica.
Anche sulla burocrazia il dibattito è datato. Venticinque anni fa la legge elettorale sull’elezione diretta del sindaco fu fatta anche per questo, per battere l’irresponsabilità diffusa. Anche se vinci per un voto ti do una maggioranza netta; di più, ti do la possibilità di sceglierti la squadra di governo; di nominare i dirigenti nei settori; di scegliere il segretario comunale; di modificare a piacimento la struttura organizzativa del comune; di nominare i rappresentanti delle società partecipate; di assumere dirigenti a tempo determinato. Solo che il prezzo da pagare è uno solo, semplice, solare: la responsabilità politica ed amministrativa non il balletto irricevibile dei “non sapevo.”
C’è poi il tema della risposta dello Stato, non sempre all’altezza.
Il tempo medio di scioglimento di un comune infiltrato è poco più di tre anni dal momento delle elezioni. Una consiliatura ne dura cinque, con buona pace di chi definisce questa legge come preventiva.
Dopo ventotto anni non esiste un ruolo ad hoc per funzionari e prefetti chiamati a guidare i comuni disciolti per infiltrazioni, come se venire da una prefettura significa “comprendere” di amministrazione locale. L’esperienza insegna che non è così. Le gestioni commissariali sono spesso deficitarie perché affidate a figure che non hanno mai avuto a che fare con i municipi, con i loro problemi, con le loro norme.
Oggi sul tema dei problemi della democrazia si è finalmente aperto un largo dibattito che non ignora l’illusorietà di pensare che “elezioni regolari implichino di per sé una democrazia regolare”, cosicché gli scioglimenti dei Comuni per mafia ci invitano a ragionare in maniera meno ortodossa intorno a un fenomeno sul quale siamo lontani da una soluzione.

Da mafie


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