BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

Contro il Colle una Lockheed 2

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La coda dell’estate dei veleni è ancora più velenosa, ma è probabile che, chiuso nel cerchio di fuoco delle verità suggerite giorno dopo giorno dai magistrati, ora lo scorpione rivolga la punta contro se stesso. Il sostituto Ingroia, che per temperamento presta il fianco a malevolenze ideologiche o a entusiasmi altrettanto partigiani, ha detto all’inizio della settimana scorsa che non c’è stato mai conflitto tra procura e Quirinale e che l’appello del capo dello stato alla Consulta è conseguente all’incapacità della politica a riempire il vuoto normativo sull’uso delle intercettazioni. Anche il suo capo, Messineo, ha parlato allo stesso modo. Chissà perché una parte importante della destra ha sorvolato sull’affermazione di Ingroia e ha continuato la sua battaglia cartacea perfino con titoli sul nulla da segnalare. Poi il procuratore nazionale antimafia ha aggiunto che l’azione in atto contro magistratura e Quirinale è frutto di “menti lucidissime”, ripetendo l’opinione di Falcone sull’attentato dell’ ’89 nella sua villa siciliana contro di lui e la procuratrice svizzera Carla Del Ponte. L’accusa di destabilizzazione politica, implicita nelle parole di Grasso, ha fatto saltare i nervi ai Cicchitto e Mantovano, che gli chiedono di dire chi sono quelle menti. Ma non passano 24 ore e li toglie d’ambascia il procuratore di Caltanissetta che coordina le indagini sulle stragi del ’92, Sergio Lari: “L’ignobile campagna di denigrazione e di attacco al capo dello Stato” – dice al Corriere della sera – non è di una o più menti raffinatissime, modello anni 80 e 90, ma di “personaggi politici in attività, con nomi e cognomi ben noti”.

Non era necessario arrivare così vicino alla chiusura del cerchio per autorizzare chi teme il ritorno del “caimano”, o s’addentra un po’ nella logica dei fatti, a formulare almeno un’ipotesi blanda: dietro la congiura contro il Quirinale c’è (o ci sarebbe, secondo il collega di Falcone Giuseppe Di Lello, che ne parla esplicitamente a Repubblica) “il tentativo di affrettare i tempi della legge sulle intercettazioni”: quella legge che la destra ha sempre chiesto a gran voce e che non è stata capace di votare in parlamento, neanche con cento deputati di maggioranza:e che serve soprattutto a imbavagliare l’informazione. Ma c’è anche chi va oltre e formula l’ipotesi eversiva: è quella del deputato del Fli Nino Lo Presti, già collega di Cicchitto e Mantovano nel Pdl, il quale non si stupirebbe se “la canea dei giornali di centrodestra contro Napolitano si concretizzasse in una richiesta di dimissioni del presidente della repubblica”. E ciò “potrebbe spianare la strada del Colle all’ex premier, che finge di non sapere nulla e si affretta a solidarizzare con la sua prossima vittima”.
C’è dunque un progetto Lockheed 2, come quello contro Leone? Ipotesi suggestiva, che non ci trova del tutto d’accordo. Non perché la destra avrebbe scrupoli, ma perché le mancherebbero, forse, i numeri in parlamento: nonostante il progressivo (e sottovalutato) ricompattamento dei resti della sua grande armata. Ma se l’ipotesi eversiva è ai limiti della credibilità, l’ipotesi blanda è invece perseguibile, anche se Giulia Bongiorno, dalla presidenza della commissione giustizia, fa sapere che per questa legge “il tempo è scaduto”. Con la conseguenza che salta tutto il pacchetto Severino sulla giustizia, stante il ripetuto e dichiarato ricatto della destra: o entrambe le cose o nessuna. Insomma, sta venendo fuori la trama in cui tutto si tiene.
Potrebbe essere ricondotto in questo quadro l’appello di Mancino a finirla col “conflitto tra istituzioni”. Notiamo solo che, mentre la magistratura ha ritrovato una sua linea istituzionale chiara e intelleggibile, gli alambicchi di Mefistofile restano in mano ai partiti, ad alcuni partiti: che li nascondono dietro figure e istituzioni costituzionali. Ebbi l’occasione di fare a Mancino l’ultima intervista da ministro dell’interno, aprile ’94, dopo la vittoria di Berlusconi e l’imminente arrivo di Maroni. Notai che al Viminale, il palazzo che Giolitti volle costruito a fortezza nel cuore di Roma per presidiare il giovane stato, c’era una grossa tabella coi nomi dei titolari che s’erano succeduti: da Bettino Ricasoli, primo ministro dell’interno del regno, a Nicola Mancino, ultimo ministro della prima repubblica. Per la seconda repubblica, la nuova lista, che si sarebbe aperta con Maroni, sarebbe stata necessaria un’altra tabella. (Per fortuna, il nome di Napolitano, ministro dell’interno di Prodi, avrebbe un po’ riequilibrato i dislivelli). Chiesi a Mancino come vivesse quel momento, dopo 47 anni di feudo dc al Viminale: “Come uno che sa di aver servito lo Stato e le sue leggi, con risultati che molti dicono non prevedibili quando questa responsabilità mi fu affidata, tra la strage di Falcone e quella di Borsellino”. E avrebbe gradito come suo successore il prefetto Parisi? “No, è il miglior capo della polizia che l’Italia oggi possa avere, ma tra la sua funzione e quella dei ministri la distinzione politica dev’essere totale: altrimenti si presta il fianco a legittimi dubbi di collusioni e scarsa trasparenza”. Nelle vacanze finite, ho riletto quest’intervista a La Voce. Quale abisso con la politica e l’informazione correnti. A parte il buongusto di telefonare al Colle (Giolitti non l’avrebbe fatto).

* www.europaquotidiano.it


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