Il 13 settembre, durante il Forum economico mondiale in corso in Vietnam, la consigliera di stato di Myanmar Aung San Suu Kyi ha difeso la recente condanna dei due giornalisti dell’agenzia Reuters, Wa Lone e Kyaw Soe Oo.
I due giornalisti, condannati all’inizio del mese a sette anni di carcere per violazione della Legge sui segreti di stato – una delle più liberticide in vigore in Myanmar – stavano indagando sui crimini di guerra e contro l’umanità contro la minoranza rohingya nel nord del paese.
La Nobel per la pace ha difeso la condanna sostenendo che la vicenda non ha “nulla a che vedere con la libertà di espressione” e che i due giornalisti non sono stati condannati “in quanto giornalisti”.
Tutto il mondo ha riconosciuto che, dall’arresto alla condanna dei due giornalisti, non si è trattato altro che di un palese attacco alla libertà di espressione e al giornalismo indipendente in Myanmar.
In molti abbiamo dato retta ai vari esperti sul paese asiatico, che suggerivano di non prendersela con Aung San Suu Kyi perché ciò avrebbe ulteriormente indebolito la sua posizione all’interno delle istituzioni di Myanmar, lasciando campo libero ai militari.
Non si è infierito quando ha rinunciato a condannare espressamente la pulizia etnica contro i rohingya.
Ma oggi che ha preso la parola per difendere quel sistema di leggi repressive che ha privato lei stessa della libertà per anni e anni, Aung San Suu Kyi è del tutto indifendibile.
Per un Nobel per la pace che rinuncia a sostenere la libertà d’espressione e di stampa, c’è solo una parola: vergogna.