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Peppino Impastato, con l’archiviazione la verità si allontana sempre di più

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“La storia di Peppino e degli amici siciliani”. Chi non ha mai sentito questi versi nella colonna sonora del film “Cento passi”, scritta e musicata dai Modena City Ramblers?
E la storia di Peppino Impastato, al secolo Giuseppe, doveva essere semplice, come quella di tanti “figli di”. Figli di cosa? Di padri di mafia. Il padre di Peppino era Luigi – detto “Reginedda” – uomo d’onore e amico di Don Tano Badalamenti.
Peppino era un giornalista e militante dell’estrema sinistra. E, soprattutto, era un nemico giurato della mafia, che distruggeva con un fortissimo senso dell’ironia, nel corso del suo seguitissimo programma “Onda pazza” (su Radio Aut), seguitissimo all’epoca in tutto il suo Paese, Cinisi. E fra un “don Tano che prega” e una canzone di Celentano, Peppino scardinava una delle cose più importanti, da sempre, delle mafie: quello che i boss definiscono “onore”.
Se oggi Peppino fosse vivo, per molti – ne sono certo – sarebbe un “provocatore”. Lui, invece, sapeva sferzare i mafiosi con un feroce attacco alla loro politica nella sua città che definiva “Mafiopoli” e “Mafiettopoli”.
La sua storia, appunto. La sua storia, nel bene e nel male, è stata al centro della storia del nostro Paese.
La notte tra l’otto e il nove maggio del 1978, quella “più buia della storia del nostro Paese”, mentre Roma ancora dorme, il presidente della Dc, Aldo Moro, sta per essere giustiziato dai terroristi delle brigate rosse. Mille chilometri più a sud, fra Cinisi e Terrasini, Peppino viene trascinato a forza fuori dalla sua macchina, dopo averlo fracassato, il corpo venne legato ai binari della ferrovia e fatto saltare in aria con una carica di tritolo.
Ed è da questo momento che, la storia di Peppino, si intreccia con i segreti del nostro Paese. Peppino viene ucciso dagli uomini di don Tano, ma le sue indagini vengono depistate dai carabinieri che, invece, dovevano trovare i colpevoli. È quanto scrive il Giudice per le indagini preliminari di Palermo, Walter Turturici, nell’archiviazione (quarant’anni e quattro mesi dopo l’uccisione) delle nuove indagini per la morte di Peppino Impastato.
“Un contesto di gravi omissioni ed evidenti anomalie investigative” è quanto si legge, e riportato ieri mattina in esclusiva su “La Repubblica” in un articolo di Salvo Palazzolo.

Ad essere archiviato, per favoreggiamento, è Antonio Subranni, generale dei carabinieri ed uno dei condannati eccellenti del processo “trattativa Stato-mafia”. Con lui l’archiviazione per prescrizione è arrivata pure per i tre sottufficiali (rispondevano di concorso in falso) che la notte del delitto fecero perquisizioni nella casa di Impastato a Cinisi: Carmelo Canale, Francesco Abramo e Francesco Di Bono.
Siccome quelle di Peppino “il disgraziato” erano “minchiate”, la pista mafiosa non fu presa neanche in considerazione dai carabinieri. Ad essere accreditata, sin da subito, fu la pista per cui l’esponente di Democrazia Proletaria fosse una persona instabile sul piano psichico, sostanzialmente un terrorista, che si volesse suicidare.
Ovviamente non fu la verità, ma si trattò di un clamoroso depistaggio.
La pubblica accusa di Palermo, rappresentata dai pm Roberto Tartaglia, Vittorio Teresi e Francesco Del Bene avevano individuato in Subranni il responsabile principale del depistaggio.
“Aprioristicamente, incomprensibilmente, ingiustificatamente e frettolosamente escluse la pista mafiosa”, scrive il gip, che parla di “vistose, se non macroscopiche anomalie delle attività investigative”.

I misteri, le anomalie, non finiscono qui. Come in tante vicende che riguardano la storia del nostro Paese, anche la morte di Peppino è ricca – purtroppo – di altri punti interrogativi.
Nel 1978, incredibilmente, risulta che Badalamenti fosse da poco diventato confidente dei carabinieri. Sì, il capomafia. Don Tano, o zu Tano. Insomma, lui. La sua “collaborazione”, secondo quanto risulta dalle indagini, fu gestita dal maresciallo Antonino Lombardo. Lo stesso che, il 4 marzo del 1995, si suicidò sparandosi un colpo di pistola nell’atrio della caserma “Bonsignore” di Palermo. Ed ovviamente, la notte che seguì il suicidio del maresciallo, come accaduto in tanti altri casi (borsa di Moro, memoriale di Moro, computer di Falcone, agenda rossa di Borsellino, tanto per citarne qualcuno), scomparve il suo archivio. Neanche a dirlo. Così come mai ritrovati sono stati i documenti sequestrati in casa Impastato. Sequestrati è forse il termine sbagliato, visto che nel foglio dei carabinieri venne scritto “Elenco del materiale sequestrato informalmente a casa di Impastato Giuseppe”.
Sequestro informale? Informale non esiste in nessun codice di procedura penale. E fra questi, un foglio in cui vi sarebbe stato scritto “Voglio abbandonare la politica e la vita“, un “appunto” che per i carabinieri rappresentava la prova regina: “Impastato si voleva uccidere”.
Ma per Giovanni Impastato, fratello di Peppino, la questione è molto diversa, ad esempio riferisce che “mio fratello poco prima di morire si stava interessando alla strage della casermetta di Alcamo Marina, che nel 1976 costò la vita a due giovani carabinieri.
Misteri nei misteri. Una verità che ancora oggi, dopo oltre quarant’anni, manca. Un coinvolgimento di ufficiali o personaggi che, secondo la sentenza trattativa, sono nell’area grigia del nostro Paese.
Una verità che Peppino, ed i tanti che credono in lui, merita. E che oggi, però, con l’archiviazione si allontana sempre più.


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