Il 14 settembre di 30 anni fa viene ucciso a Trapani dalla criminalità organizzata il magistrato Alberto Giacomelli. Lo ricorda in un libro dal titolo “Un uomo per bene” il giornalista Salvo Ognibene. Pubblichiamo di seguito, per gentile concessione delle Edizioni Dehoniane Bologna l’introduzione dell’autore e la prefazione di Attilio Bolzoni.
Prefazione – di Attilio Bolzoni
Sono due gli anni siciliani che annunciano quello che possiamo definire l’«atto finale», le stragi d’estate del 1992, prima di Giovanni Falcone poi di Paolo Borsellino. Sono sempre due gli anni, il 1988 e il 1989, che sono serviti a «preparare» il cratere di Capaci e lo sconvolgente attentato – appena cinquantasei giorni dopo – di via Mariano D’Amelio. Me la ricordo quella Sicilia, me la ricordo bene quella Sicilia dell’88 e dell’89. Corvi, talpe, sciacalli, candelotti di dinamite, «menti raffinatissime», misteri che hanno fatto tremare l’isola e anche l’Italia.
Il 1988 era cominciato male a Palermo. Gennaio non era ancora finito e avevano ucciso Giuseppe Insalaco, un ex sindaco, un uomo politico che aveva deciso di denunciare le trame intorno ai grandi appalti, sempre gli stessi nomi, sempre le stesse protezioni, sempre gli stessi oscuri legami fra un Palazzo e l’altro. Insalaco lasciò un «diario» con il suo grido di dolore e le sue accuse, due liste di nomi, da una parte i «buoni» (fra i quali il presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, ucciso; il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, ucciso; il consigliere istruttore Cesare Terranova, ucciso; il segretario regionale del Partito comunista italiano Pio La Torre, ucciso), dall’altra i «cattivi» (fra i quali l’europarlamentare Salvo Lima, il presidente Giulio Andreotti, il procuratore capo della Repubblica Vincenzo Pajno, l’esattore mafioso Ignazio Salvo) e in mezzo una Palermo sprofondata nella paura. Dei sicari di Totò Riina e dei loro complici, invisibili gli uni e gli altri ma presenti in una città sospesa fra il suo passato e il suo futuro.
Il maxi processo si era concluso un anno e un mese prima con le prime e decisive condanne per la Cupola. L’impianto accusatorio del pool antimafia aveva retto alla prova della Corte d’assise, ma in tanti speravano nell’appello per disintegrare quel capolavoro di ingegneria giudiziaria che aveva inventato Giovanni Falcone. Era già arrivata la stagione del disincanto. Era passato appena un anno dalla fine del maxi processo e sembrava un secolo.
Fu in quella primavera che a Roma decisero di scavare la fossa istituzionale a Falcone. A Palazzo dei Marescialli, la sede del Consiglio superiore della magistratura. Al posto di Antonino Caponnetto, il consigliere istruttore che aveva sostituito Rocco Chinnici saltato in aria il 29 luglio del 1983, nominarono un vecchio magistrato che non sapeva nulla di questioni mafiose e che in poche settimane disintegrò a colpi di penna l’«unicità» di Cosa nostra, sparpagliando in mille rivoli tutte le indagini che il pool aveva centralizzato. Nei corridoi del Tribunale parlarono di «spezzatino antimafia». Era la fine di un metodo di lavoro e di investigazione che aveva dato per la prima volta straordinari risultati. Un segnale per Giovanni Falcone, dentro e fuori Palermo, dentro e fuori lo Stato. Qualche mese dopo questa vergognosa vicenda interna alla magistratura italiana, il procuratore capo della Repubblica a Marsala Paolo Borsellino denunciò «la fine della lotta alla mafia». In una clamorosa intervista che rilasciò a Saverio Lodato de L’Unità e a me, che già scrivevo da quasi dieci anni per La Repubblica, Borsellino sferrò un attacco contro le scelte del Consiglio superiore della magistratura e accusò la macchina repressiva dello Stato di non muoversi più «dai tempi di Ninni Cassarà e Beppe Montana», i due funzionari della Squadra mobile di Palermo assassinati nel 1985 e che erano stati il «motore» delle indagini di Falcone per istruire il maxi processo.
L’estate siciliana del 1988 se ne andò con un titolo in prima pagina – ogni giorno – su tutti i quotidiani italiani. Era esploso il «caso Palermo», con il suo Tribunale ormai chiamato il «Palazzo dei veleni», le infuocate polemiche sulla mancata nomina di Giovanni Falcone a consigliere istruttore, il cambio improvviso dei vertici della polizia palermitana, i timori degli ambienti politici romani, le speranze dei siciliani.
Un’estate inquieta. Un’estate che non era ancora finita. E il 14 settembre, di mattina, nel silenzio più cupo uccisero Alberto Giacomelli, giudice figlio di un giudice, che da poco più di un anno aveva lasciato la toga. Un delitto «senza». Senza clamore. Senza assassini (mai trovati), senza movente per lungo tempo, senza lapidi e celebrazioni per ricordare l’uomo e il magistrato, un delitto senza niente e senza tutto. Un giudice dimenticato un attimo dopo la sua morte violenta. Inghiottito da maldicenze e depistaggi, dall’omertà, dall’ignoranza. Inghiottito da una Sicilia che appena qualche giorno dopo stava piangendo il presidente della Corte d’assise Antonino Saetta e qualche giorno dopo ancora il giornalista Mauro Rostagno. Mese di mattanza il settembre del 1988.
Si saprà solo dopo molti anni – quando ne parleranno i pentiti di Cosa nostra – che Alberto Giacomelli aveva «pagato» per avere confiscato con un provvedimento un «bene di famiglia», una proprietà di Gaetano Riina, il fratello dello «zio Totò», il capo dei capi, in quel 1988 latitante già da quasi vent’anni. Era presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Trapani, defilato, silenzioso, sobrio. Uno che dietro il sipario decideva i destini economici di quei «galantuomini», che aveva messo la sua firma su un patrimonio che per sua volontà e in nome del popolo italiano non apparteneva più al mafioso di Corleone che in Sicilia decideva chi doveva vivere e chi doveva morire. Così è uscito di scena, in punta di piedi, un coraggiosissimo magistrato siciliano che non aveva mai avuto le attenzioni dei cronisti o le luci degli studi televisivi, così è morto in solitudine Alberto Giacomelli. Ci sono delitti e delitti in Sicilia. E alcuni sono meno «importanti» di altri perché non «gridano», perché le vittime non hanno una storia pubblica tanto clamorosa da prendersi spazio prima e anche dopo un agguato di mafia.
La Sicilia del 1988 – dei giudici delegittimati e assassinati, dei giornalisti caduti – ha anticipato un 1989 non meno agitato e spaventoso. Prima i pentiti trovati alle porte di Palermo che volevano riprendere una «guerra» con i loro nemici di cosca, poi le lettere del Corvo per isolare ancora di più Giovanni Falcone. E poi ancora l’Addaura, quei candelotti di dinamite sistemati sulla scogliera per uccidere il magistrato. Mafia e non solo mafia. Fu quella volta che Falcone parlò di «menti raffinatissime». Fu quel giorno del giugno 1989 – il 21 – che Falcone cominciò a morire.
Introduzione – di Salvo Ognibene
La prima volta che ho incontrato il nome e la storia di Alberto Giacomelli è stata durante una delle mie prime udienze da praticante avvocato. Poco prima di entrare nell’aula penale al secondo piano del Tribunale di Trapani, incrociai una targa su cui vi era scritto «Aula Presidente Alberto Giacomelli». Mi soffermai a lungo a fissarla, poi entrai in aula. Da allora non ho più sentito nulla su quel giudice ucciso a Trapani quando era già in pensione. Lo «incontrai» nuovamente in una scuola siciliana: la docente che mi invitò, insieme a Rosaria Cascio, per parlare del nostro libro sull’eredità di padre Pino Puglisi, mi raccontò di tutto il bellissimo calendario di incontri che avevano stilato in occasione del Progetto/Concorso nazionale di Legalità intitolato ad Accursio Miraglia,1 nel settantesimo della ricorrenza e dell’ultimo incontro sulla storia e sull’esempio di Alberto Giacomelli, grazie alla presenza di don Giuseppe, il figlio. Una storia bellissima quella del giudice Giacomelli, ma coperta dal silenzio. Dopo mesi di studio e assidue ricerche continuo a non trovare una risposta chiara del perché una storia così importante sia stata quasi lasciata cadere nel dimenticatoio della memoria. Quella memoria che è l’anima di una comunità e che il nostro Paese, purtroppo, ha dimostrato di avere il difetto di dimenticare in fretta.
L’idea di scrivere questo libro è nata il 21 marzo 2017, durante un volo partito da Trapani e diretto a Bologna. Proprio a Trapani, nella città del giudice, si era tenuta la XXII Giornata nazionale della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti della mafia. Un’idea che si è lentamente trasformata in necessità, dopo aver studiato gli incartamenti giudiziari e aver incontrato chi aveva conosciuto il giudice ucciso il 14 settembre del 1988 per mano mafiosa.
Quello che vi consegno è il racconto della vita di Alberto Giacomelli, più come uomo che come giudice. È la storia di un uomo mite, sempre pronto al dialogo e a prendersi cura delle persone. Un uomo al quale il nostro Paese deve essere profondamente grato. Scavando nella sua storia, grazie soprattutto alla testimonianza di chi lo ha conosciuto all’interno del Palazzo di Giustizia di Trapani e di chi ne ha conservato il ricordo, torna subito in mente l’imperativo categorico del filosofo tedesco Immanuel Kant, che nella Critica della ragion pratica scriveva: «Agisci in modo da trattare l’umanità, tanto nella tua persona quanto nella persona di ogni altro, sempre anche come un fine, e mai unicamente come un mezzo».
L’umanità, ecco. Quello che ha sempre distinto Alberto Giacomelli.