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Venezia 2018. Il corpo tecnologico. Leone d’Oro alla Carriera a David Cronenberg

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Ci sono alcune sequenze del cinema di David Cronenberg – Leone d’Oro alla Carriera al Festival del Cinema di Venezia 2018 – che si ripetono come mantra nella mia mente: le immagini televisive che si fanno, emergendo letteralmente dallo schermo, nuova carne in “Videodrome” (1983), parto della divinità ibrida e orrenda – la violenza – nuova dominatrice del mondo mediatico. La solenne vestizione di uno dei gemelli, sanguigno sacerdote di un liturgia interiore, in “Inseparabili” (1988), accanto al sinistro sfavillio d’acciaio di terribili e quasi alieni strumenti chirurgici. Oppure il bacio che Renè Gallimard (Jeremy Irons), il protagonista di “M. Butterfly” (1993), strappa alla signorina (?) Song (John Lone).

E sarà proprio “M. Butterfly” – in versione originale con sottotitoli italiani il prossimo 6 settembre in Sala Grande – a precedere la cerimonia di consegna del Leone d’Oro alla carriera al regista canadese. Una pellicola, questa, che metteva a nudo attraverso lo sguardo del protagonista la falsa percezione dell’Oriente da parte degli occidentali: per citare una delle sequenze più celebri, il paradosso di far interpretare ad una cinese il ruolo di una giapponese è sintomatico di un colonialismo del quale “M. Butterfly”, specchio rovesciato dell’opera di Puccini, mostra l’anima nera, “la “confessione biologica”, per dirla con Céline.

Un premio dunque per un outsider (al festival lagunare del 2011 il suo “A Dangerous Method” fu accolto assai bene ma escluso da ogni premio), anticipatore della riflessione sul corpo tecnologico, dell’ibridazione, della fusione tra carne e metallo, tra plastica e sangue. Rivelatore insomma, di quella frattura “epistemica” attraverso la quale i mass-media hanno modificato fisiologicamente l’intero sistema cognitivo delle società in cui vengono utilizzati.

Cronenberg rimane nell’establishment del cinema un corpo ‘esterno’, quando non estraneo cui viene finalmente tributato un giusto riconoscimento: d’altra parte questo è l’anno in cui il Festival di Venezia propone il remake di “Suspiria” di Dario Argento per mano di Luca Guadagnino e, all’interno della rassegna “Venezia Classici”, seppur relegato in concorso per il miglior restauro, un capolavoro come “They live” (1988) di John Carpenter.

“Benché in origine Cronenberg sia stato relegato nei territori marginali del genere horror – si è costretto ad ammettere lo stesso direttore del Festival di Venezia Alberto Barbera – sin dai suoi primi film scandalosamente sovversivi il regista ha mostrato di voler condurre i suoi spettatori ben al di là del cinema di exploitation, costruendo film dopo film un edificio originale e personalissimo.”

Il successo di Cronenberg nel cinema di genere – l’horror – è sintomatico di come questo regista autodidatta (“non ho mai seguito alcun corso di cinema e la mia scuola è stata vedere pellicole; così come si impara a scrivere un romanzo leggendone, allo stesso modo si impara a girare film vedendoli…”) abbia saputo meglio e più di altri offrire, e forse predire, una società a partire proprio dai “mostri” che essa stessa è in grado di partorire: l’industria della comunicazione di massa soprattutto, quella cioè in grado di imporsi ormai come egemone sul mercato e capace di innescare una forma diversa di “alienazione”: il mostro tecnico-mediatico. E infatti in “Videodrome” (1983) è una video-cassetta inserita nel corpo dell’antieroe Mogol a prendere il controllo della sua mente: l’idea della “dipendenza dalla macchina”, dell’incapacità di distinguere la mappa del territorio da quella dell’identità erano così prefigurate. Oggi Hollywood, cioè la stessa industria mediatica per eccellenza, sembra aver rovesciato questo assunto, o meglio: trovato altre forme di alienazione: “Nell’era della derealizzazione delle merci – scrive acutamente Giona A. Nazzaro su “Il Manifesto” – l’unica atto di credibile esistenza (eXistenZ? n.d.r.) merceologica è riaffermare la presenza del corpo attraverso performance paradossalmente incredibili.”

Se in “Cosmopolis” (2012) Cronenberg stigmatizzava l’orizzonte perverso e cieco dell’homo oeconomicus (e della sua prostata asimmetrica), una specie di cyborg-schiavo, votato al servizio del Capitale, già il successivo “Maps to the stars” (2014) il suo ultimo profondo, eversivo film, inaugurava l’anno zero di un cinema nel quale il regista segna il passaggio dalle mutazioni, dal body horror (La mosca”, 1986), dalla patologia (“Spider”, 2002), dalla violenza esibita (“A History of violence”, 2005) e corteggiata (“La promessa dell’assassino” 2007), fino ai bassifondi morali della società dello spettacolo, alla metafisica. Cioè: dalla poetica della carne a quella della parola. Anzi della letteratura: un ritorno, in fondo, considerate alcune pellicole, tra le sue migliori: “La zona morta” (1991), dal romanzo omonimo di Stephen King, “Il pasto nudo” (1996) da William S. Burroghs e la “traduzione intersemiotica” di “Crash” (1996), da James Ballard.

Così questo inedito percorso di David Cronenberg, sprofondando in un abisso da tragedia greca, di hybris, di ricerca e di affermazione dell’identità, restituisce tutto il disagio ontologico dei nostri tempi e quello di “una realtà che non è che una possibilità, debole e fragile, come tutte le altre possibilità.”

(inviato Scénario)


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