Prendiamo due delle guerre di cui si è parlato di più negli ultimi anni: il conflitto in Ucraina dell’est e quello in Siria. Ne avete letto (o visto) di recente? Le domanda è retorica, la risposta negativa è scontata. Continuano eppure i media (noi giornalisti, insomma) non ne parlano.
La categoria delle “crisi dimenticate” mi ha sempre fatto una strana sensazione allo stomaco, perché è l’ammissione di un fallimento senza nemmeno tentare una cura. La patologia è cronica, va amministrata e gestita ma il paziente non può essere curato.
E’ così che nell’indifferenza generale lo Yemen è diventato un mattatoio a cielo aperto, appestato dal colera; dei profughi Rohingya in Bangladesh si è persa traccia; l’epidemia di ebola in Congo è stata ignorata e via dicendo.
Almeno con l’Afghanistan ci si consola – scusate il sarcasmo – cioè ci si da una ragione all’oblio che ha inghiottito la guerra infinita: come Occidente abbiamo sacrificato vite e miliardi, la politica dimentica per assolversi.
Ora il tema delle “crisi dimenticate” (al rovescio, il tema delle “periferie da illuminare”) non è solo questione di civiltà dell’informazione, magari esistesse una par condicio delle “crisi” oltre che sulla triade maggioranza-opposizione-governo. Non è nemmeno una questione di buonismo al contrario dovrebbe essere puro egoismo quello di voler sapere in anticipo quale problema del mondo verrà a bussare alla nostra porta di casa in una pianeta dove ad essere globalizzate non sono solo le merci (ritiriamo fuori tutto il dibattito post-11/9 sulle disattenzioni americane verso il radicalismo islamico nato dal conflitto afghano?).
Dare spazio alle crisi dimenticate, quindi smetterle di dimenticarle è anche una necessità ormai vitale della democrazia italiana.
Quando Pino Rauti lanciò la frase “aiutiamoli a casa loro” (di cui sicuramente nessuno avrebbe scommesso sul futuro e trasversale successo) erano tempi in cui, molto più di ora la politica dibatteva di terzo mondo e l’editoria italiana si occupava del mondo ben più di quanto faccia oggi (al netto del turismo esotico e della cucina etnica).
Nell’Italia del 2018, lo slogan “aiutiamoli a casa loro” risuona nel vuoto e fa l’eco come amano dire gli esperti di social media. In pratica rafforza le convinzioni di chi già la pensa in un certo modo.
Il vuoto è generato dall’assenza di informazioni su “casa loro”. Per esempio, l’opinione pubblica che l’equivalente della Firenze afghana (una città nodo nei collegamenti, presa la quale si taglia il Paese a metà) cioè la città di Ghazni è finita nelle mani dei talebani per cinque giorni. Qualcuno ricorda che nella “casa loro” chiamata Afghanistan, con dispendio di sangue italiano e di soldi del contribuenti, li abbiamo già aiutati.
L’elenco potrebbe continuare per esempio nel 2015, Amnesty International intitolavo un suo rapporto ” “Nient’altro che disertori. Come la leva a tempo indeterminato ha creato una generazione di rifugiati”. Qualcuno ricorda in Italia che gli eritrei sono costretti ad una leva obbligatoria che può durare a vita tipo lavori forzati?
Per farla breve forse conviene ricordare solo un dato: l’opinione pubblica italiane – spaventata dall’invasione – è a conoscenza che oltre l’80% dei rifugiati mondiali sono ospitati da 10 Paesi nella cui lista non comprare un solo – dico uno – Paese sviluppato? Nè Usa, né Francia, né Regno Unito, né ltalia, né alcun’altra ricca nazione “invasa”?