di Guido Moltedo*
Laura, di origine italiana e fiera di esserlo, si professa independent. Ma se si parla di controllo delle armi da fuoco, s’inalbera: «Non possono toccare una mia libertà fondamentale, guai a chi m’impedisce di tenere il mio fucile». Poi ammette: «Al senato voterò per il repubblicano Scott Brown. Sono conservatrice, io, ma non come mio marito Joe, specie sulle questioni sociali e morali. Lui è very conservative. Io, invece, sono a favore della copertura sanitaria garantita dallo stato per i bambini e per gli anziani. E, come donna, voglio poter vivere in un paese nel quale è impensabile che un’autorità maschile venga da me e mi dica come devo vivere, come devo vestire, come mi devo comportare».
Laura e Joe gestiscono la “Lighthouse”, una tipica taverna americana nella Main Street, il corso di Wellfleet, piccolo centro di villeggiatura nella penisola di Cape Cod, a un paio d’ore da Boston. La Lighthouse la frequentano i villeggianti, ma soprattutto i locali, che vivono di allevamento di ostriche, le più rinomate d’America.
Siamo nel cuore dell’America più blu – il colore dei democratici – e, se si è repubblicani, qui è bene dichiararsi indipendenti. Come nel profondo Sud dei rossi repubblicani dove chissà quanti democratici, per quieto vivere, si dicono indipendenti. Anche Rick, valente artigiano del legno, afferma di essere independent. È un antipolitico, Rick. Per lui «chi fa politica non può essere onesto». Però aggiunge: «Di questi tempi ci vorrebbe un grande leader». Andrà a votare il 6 novembre? Non lo sa ancora. E se ci andrà, alla fine potrebbe pure scegliere Obama. Non perché l’apprezzi. Più semplicemente perché Romney proprio non gli piace.
Già, «Mitt Romney has a problem». Ha un problema, come scrive sul popolare DailyNews Tad Devine, consulente politico di candidati democratici di alto rango: «Agli elettori non piace Romney. E più lo conoscono, e meno sembra che lo tengano in considerazione». Sono mesi ormai che il candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti vede crescere i vari indici di “non gradimento” e diminuire quelli di “gradimento”. La cosiddetta likeability. Nessun candidato presidenziale, dacché si misura la likeability con sondaggi mirati, è stato a livelli così bassi in questa fase della campagna elettorale.
I dati sono ancora più sfavorevoli per Romney quando si va tra gli indipendenti come Laura, Joe e Rick. In questo perimetro elettorale, di strategica importanza nelle presidenziali, Romney è visto con favore dal 37 per cento degli intervistati e sfavorevolmente dal 50 per cento. La likeability è un fattore che pesa nella scelta di un presidente. Difficile dire quanto, ma ormai è considerato un dato cruciale, addirittura decisivo. Sicuramente entra nei ragionamenti degli elettori, anzi nelle loro viscere e, in un paese dove c’è riluttanza a recarsi alle urne, spesso conta tantissimo.
Dopo aver perso le elezioni per la carica di governatore del Massachusetts, nel 1990 John Silber spiegò a Davine la ragione della sua sconfitta. L’illustre accademico – prestato per qualche mese alla politica, per poi tornare all’università di Boston – gli disse così: «La più grande lezione che ho imparato nella mia campagna è stata questa: andranno a votare per te, ma solo se piacerai agli elettori». Perché Romney continua a non piacere? Perché è «un punk (una nullità) con la personalità del bambolotto Ken» (la definizione è del sanguigno commentatore Bob Beckel).
Perché si muove come un robot. Indubbiamente ha un pessimo linguaggio del corpo. Ma c’è anche una sostanza che non passa inosservata. Secondo un sondaggio eseguito per il Washington Post e Abc News, è considerato goffo e senza dimestichezza con i problemi che affliggono il ceto medio americano. Obama, spiega il Post, «vanta un distacco a due cifre su Romney nel quesito su chi farebbe meglio nel tutelare la middle class, nell’affrontare le questioni che interessano le donne, nel trattare gli affari internazionali e nel gestire la politica sanitaria. E quando le domande riguardano i tratti personali dei due candidati, il margine del presidente è anche maggiore. Ha un vantaggio superiore di due a uno come il più amichevole e il più simpatico». Obama «is more inspiring». Ispira di più di Romney. Insomma, nell’ormai famosa prova della birra (“con quale candidato condivideresti una birra?”), Obama trionferebbe sull’avversario, e non solo perché Romney è astemio, come prescrive la sua religione, il mormonismo. Con punteggi così bassi, mai un candidato ha raggiunto la Casa Bianca, sostiene Andrew Kohut, presidente del Pew Research Center. L’idea di affiancare a Romney Paul Ryan dovrebbe compensargli il deficit di “autenticità” e di “simpatia”. Ma finora i risultati dell’accoppiata sono deludenti: il rimbalzo nei sondaggi della nomina di Ryan è stato di poco superiore all’uno per cento. Niente. Con il rischio che il numero due del ticket rubi la scena al numero uno.
Ecco allora, l’asso da buttare sul tavolo. La Republican National Convention a Tampa. Che non sarà solo la consacrazione del vincitore delle primarie, con l’ufficializzazione della sua piattaforma (oltre che la passerella delle star del partito, che ne sancirà la nuova gerarchia. A proposito: Marco Rubio sarà risarcito della mancata nomina come numero due del ticket con l’incarico di introdurre Romney per il suo discorso di accettazione della nomination).
Un allestimento molto particolare renderà il raduno di Tampa diverso da ogni precedente convention, sia repubblicana sia democratica. Come rivela il New York Times, un misto di Broadway, di ambiente da talk show e di sale di regia tv farà da sfondo alla narrazione della figura centrale della convention, un Romney alla mano, rilassato, sensibile, vicino alla gente e ai suoi problemi. Difficile crederci. Ma se non ci riuscirà a Tampa, a risalire nei sondaggi, non ci sarà un’altra occasione altrettanto favorevole per Romney fino al voto del 6 novembre