Il sottosegretario con delega all’editoria Vito Crimi è persona pacata e dialogica. Tuttavia, non è privo di pre-concetti. Il Fondo per il pluralismo e l’innovazione dell’informazione, già Fondo per l’editoria rivisto dalla legge n.198 del 2016, non è gradito al responsabile di settore del governo. O, meglio, si suggerisce un rovesciamento dell’ordine degli addendi: dal finanziamento delle testate al contributo ai lettori. Peccato che, in una simile eventualità del resto da tempo ipotizzata dai grandi gruppi editoriali in crisi di vendite, tutte le vacche diventerebbero nere. Ne farebbero le spese proprio i giornali meno tutelati dal mercato, per i quali fu immaginato il sostegno pubblico. Quest’ultimo non ha senso se riguarda indiscriminatamente ricchi e poveri, se mischia quotidiani di movimenti e cooperative (vere) o legati al territorio con le strutture più forti e relazionate. Come è noto, gli editori puri in Italia scarseggiano. Non a caso i cosiddetti contributi indiretti furono aboliti diversi anni fa, salvo lo sconto per le utenze telefoniche. In uno stato democratico che intenda tutelare la libertà di espressione contro le censure politiche ed economiche l’utilizzo della leva pubblica è indispensabile. Del resto, in numerosi paesi è così.Con cifre superiori a quelle italiane.
Purtroppo, dopo la dichiarazione programmatica tenuta davanti alla commissione cultura della camera dei deputati lo scorso 26 luglio, e pure a seguire l’intervento dello scorso fine settimana al “Rousseau city lab” di Cesenatico, il testo pubblicato su “Datamediahub.it” è una doccia fredda. Qui la linea appare persino chiarissima: “…Dunque deve essere chiaro che la contribuzione pubblica presto sparirà,,,”. Così scrive Crimi rispondendo con sorvegliata educazione alla lettera aperta del direttore della testata on line Pier Luca Santoro, che poneva tra l’altro proprio tali questioni. Si ricorre ad una valutazione sfalsata ( una fake…) sull’entità del fondo, che non è tra i maggiori bensì tra i minori degli interventi statuali. 58 milioni di euro per una cinquantina di testate, meno della metà di quanto fossero dieci anni fa.
Insomma, si tratta di un ribaltamento della realtà, figlio di un furore ideologico che stride con il bon ton del sottosegretario. Sembra una cambiale da pagare alle spinte e alle suggestioni comiziali contro i giornali di partito. Che, va ricordato agli aderenti del Mov5Stelle, non esistono da tempo. Ci sono ed è fondamentale che continuino a vivere i giornali che arricchiscono il tessuto comunicativo, altrimenti inaridito e rinchiuso nelle cittadelle dei trust. O esposto all’assalto degli oligarchi della rete e dei dati.
Sarebbe preferibile che Crimi avviasse davvero l’annunciata riflessione sul sistema, convocando gli “stati generali dell’editoria”, appuntamento vagheggiato da tutti i predecessori di palazzo Chigi. Altrimenti, qualsiasi ragionamento sul fondo per il pluralismo finisce in un vicolo cieco. Si vuole passare alla storia per la morte di un po’ di giornali o si intende contribuire alla ripresa di un universo essenziale per la trasmissione dei saperi?
Nella relazione svolta in parlamento si fa riferimento con parole condivisibili agli aspetti critici della nuova direttiva europea sul copyright, rimandata a settembre per il vespaio che ha determinato. Ecco, lì si vedono in controluce i veri “poteri forti” che combattono e si dibattono. In quella landa si vince o si perde: per il futuro. Si gioca la partita storica della contraddizione tra la tutela (giusta e sacrosanta) del lavoro intellettuale e quella corporativa della proprietà di pochi.
Insomma, si capisca chi sono davvero i “nemici del popolo”.