Quella voce roca, profonda, inconfondibile, meravigliosamente romana e straordinariamente poetica, la voce di un bambino che aveva avuto come padrino di battesimo il grande Trilussa, quella voce resa tale dalla miriade di sigarette che fumava ogni giorno e da una radiocronaca di quattordici ore sotto la pioggia alle Olimpiadi di Città del Messico costituisce uno dei tanti motivi per cui abbiamo amato Sandro Ciotti, scomparso il 18 luglio 2003 all’età di settantaquattro anni.
Sandro Ciotti, quindici anni senza di lui e i suoi commenti affilati ed impeccabili, quindici anni senza la sua arte di narrare, quindici anni senza il suo ping pong con Ameri, quindici anni e un calcio che forse non gli sarebbe piaciuto ma che, di sicuro, sarebbe stato ancora in grado di restituirci nella sua dimensione epica e degna delle antiche epopee omeriche.
Sandro Ciotti, che da ragazzo era stato anche un discreto calciatore, oltre ad essere un esperto di musica e uno dei massimi cantori del genio beffardo di Johan Cruijff, amava la vita come pochi. Ne aveva un gusto particolare, una passione autentica, ne adorava l’intensità e la bellezza, il valore e l’imprescindibilità.
Quante emozioni ci ha fatto vivere con l’orecchio incollato alla radiolina, quando le partite si disputavano tutte insieme la domenica pomeriggio e le televisioni a pagamento non erano ancora state inventate! Eppure ha resistito anche dopo, con il suo stile inconfondibile, la sua pacatezza e il suo costante tentativo di far ritrovare a uno sport sempre più opulento a quella dimensione umana senza la quale proprio non sapeva stare.
Mi ha raccontato una volta Ugo Russo, suo collega e allievo a Tutto il calcio minuto per minuto, che una volta, durante una radiocronaca, Ciotti si fece portare una bottiglietta d’acqua e a fine partita la bottiglietta era praticamente vuota: in compenso, era stracolma di cicche. E io me li immagino quei due, con Ugo a fare da spalla al principe dei radiocronisti, meno raffinato di Ameri ma senz’altro più verace, avvolti in una nuvola di fumo, con lo spettacolo del gioco davanti agli occhi e nel cuore la sincera gioia di essere tornati ancora una volta bambini. Perché questo è stato Sandro Ciotti: un eterno bambino, serissimo ma mai serioso, coltissimo ma mai presuntuoso o saccente, capace di spaziare in quasi tutti gli ambiti dello scibile umano ma mai tuttologo; un professionista unico, insomma, un modello da seguire e una personalità da prendere a esempio.
Quindici anni senza Ciotti, quindici anni in cui la nostra passione sportiva è stata messa più volte a dura prova, tuttavia è rimasta. Perché anche noi, proprio come Sandro, quando vediamo un pallone che rotola su un prato, torniamo improvvisamente bambini. Poi la vita torna ad essere dura, a tratti anche drammatica, ma per novanta minuti no: è una favola, una magia, una parentesi d’estasi cui non sappiamo né vogliamo rinunciare.
Caro Sandro, penso spesso a te, lassù, mentre passi la linea ad Ameri e dipingi con la tua voce inimitabile affreschi di calcio e di vita. E ti sento vicino, ripensando al bambino che ero e che, in fondo, sono rimasto. E non me ne vergogno affatto perché, volendo riassumere il senso dell’esistenza attraverso una metafora sportiva, possiamo dire che c’è sempre un “Clamoroso al Cibali!”, un imprevisto, un momento particolare che rende indimenticabili le nostre giornate.
Quindici anni, caro Sandro, e rifletto su come avresti accolto CR7 nel nostro campionato. Probabilmente lo avresti umanizzato, definendolo l’alieno che è sceso sulla Terra per scoprire e rivelare agli altri una parte di sé che non ha ancora esplorato, di sicuro la più bella. E così, con uno dei tuoi caustici ritratti, avresti reso ancora più evidente la grandezza di entrambi.