Forse non c’è niente di stonato nelle trombe dei mariachi (si, sempre loro: ma ora in tv…), che in questo Messico mezzo dissanguato e sul punto di tornare alle urne presidenziali rievocano Zapata, Villa, Orozco, i guerriglieri del sud e del nord, sulle note di Carabina 30.30, con i tamburi che ritmano il galoppo dei cavalli. Revolución è la parola ormai centenaria che non pronuncia nessuno, ma tutti hanno nella testa. I diseredati di sempre e metà paese in lutto per le vittime di oggi, anch’esse decine, centinaia di migliaia, cadaveri straziati gettati lungo le strade o scomparsi in roghi sub-urbani, nelle forre delle cordigliere. Vittime innocenti ed eroiche del narcotraffico e della dilagante corruzione dello stato, a ogni livello.
Anche Andrés Manuel López Obrador (comunemente indicato con l’acronimo AMLO, che anch’egli usa per riferirsi a se stesso), 64 anni, assoluto favorito d’ogni sondaggio e nelle attenzioni entusiaste dei sindacati o rassegnate delle associazioni imprenditoriali, deve pensare ai Carranza, Huerta, Cárdenas che l’hanno preceduto a palazzo Miraflores. Cultore di storia, procede nella politica messicana come un profeta la cui attenzione è rivolta al passato non meno che al futuro. Abbandonò tra i primi il Partido Revolucionario Instituciónal (PRI), dov’era cresciuto, quando ritenne irreversibile la sua degenerazione burocratica e clientelare. Considera questo gesto lungimirante il suo vessillo di battaglia per un “Messico più giusto”.
Dopo un settantennio ininterrotto di potere (breve e insignificante dal punto di vista sociale il governo conservatore di Vicente Fox nel Duemila), AMLO giudica il suo antico partito un’ininterrotta dittatura di casta con parentesi illuminate. Lui l’ha combattuta con qualche vittoria parziale (applaudito sindaco di Città del Messico, 1997), insurrezioni pacifiche (convinto di rispondere ai brogli elettorali che gli preclusero la Presidenza, guidò una folla enorme all’accerchiamento del Palazzo Miraflores, 2006). Fino ad approdare alla formazione dell’attuale Movimiento Renovación Nacional (MORENA), alla testa del quale quasi certamente si cingerà della fascia presidenziale. L’ultima cavalcata ambisce al pantheon nazionale: “Insieme faremo Storia”, è stata non a caso battezzata l’eterogenea coalizione (da gruppi comunisti a chiese evangeliche) riunita attorno a MORENA.
Eppure l’identikit politico di López Obregon non appare ancora affatto definito. Per i più, non esclusi numerosi suoi convinti sostenitori, è un populista. Etichetta che per essere di gran moda -e da tempo non più solo in America Latina-, non cessa di risultare di qualche vaghezza. La sua natura ectoplasmatica può mostrare segni prevalentemente di sinistra o di destra, marcate sensibilità sociali o il suo contrario per quanti ritengano obsoleta la terminologia generata dalla rivoluzione francese. Il personalismo che tanto frequentemente accompagna i movimenti populisti marca la storia latinoamericana, ben prima del sempre citato Perón in Argentina. La storia del Messico moderno ne costituisce un compendio esemplare, che gira tra numerosi sfumature e contrasti intorno a un’asse di matrice socialista.
Madero fu assassinato dai reazionari di Porfirio Diaz protetti dagli Stati Uniti, ai quali aveva offerto le istituzioni democratiche come pegno di pace sociale. Carranza ne trasse la conclusione di dover rafforzare piuttosto il suo potere personale, preferì patteggiare con il potere agrario e si ritrovò a combattere e poi far assassinare il suo generale più popolare e politicizzato, Emiliano Zapata, che pretendeva l’immediata distribuzione delle terre ai contadini. Con Alvaro Obregon, brillante caudillo-guerrillero e abile politico tanto da giungere alla presidenza della Repubblica, comincia la riforma agraria che sebbene parziale rimette in moto l’economia e promuove lo sviluppo dei ceti medi mercantili. Perfino il coraggioso socialdemocratico Lázaro Cardenas, negli anni Trenta del secolo scorso, non rinuncia a forti tratti populisti.
Nei ritornelli di strada, i mariachi cantano adesso:”Obrador, Obrador, dale raje al ladron!”, caccia i ladroni! Il leader di MORENA ha infatti colto l’urgenza della lotta alla corruzione e se n’è fatto paladino, ben sapendo che questa cancrena alimenta ogni sopraffazione, tutte le violenze, a cominciare dalla più feroce e perversa, quella del narcotraffico. Se i messicani si affideranno a lui, sarà questo il suo primo fronte di guerra, perché sarà una vera guerra. Che imporrà scelte difficili: come conciliare le più ampie alleanze sociali necessarie a combatterla con le urgenze riformiste di un paese in cui più di 50 milioni di persone, poco meno di metà della popolazione, vivono ai margini della povertà, quattro multimiliardari dispongono del 10 per cento delle ricchezze prodotte e l’uno per cento degli abitanti ne possiede un terzo? Obrador dice che saranno i fatti a rispondere per lui.
Livio Zanotti
Ildiavolononmuoremai.it