Un protocollo nazionale scaduto, una legge e una rete di qualità. Sono questi gli strumenti messi a punto nella passata legislatura contro il caporalato e lo sfruttamento del lavoro in agricoltura, ma ad oggi non hanno ancora prodotto i risultati sperati. Mininni (Flai Cgil): “Lavorare su prevenzione e lavoro agricolo di qualità”
ROMA – Un protocollo scaduto, una legge che sta ingranando ma solo sulla repressione e i furgoncini dei caporali puntuali ai soliti posti per caricare lavoratori. Sotto gli occhi di tutti. Con la raccolta del pomodoro alle porte è quasi inevitabile tornare a parlare di caporalato. Lo hanno fatto recentemente anche il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, e il ministro delle Politiche agricole alimentari e forestali, Gian Marco Centinaio, criticando la Legge 199 di contrasto ai fenomeni del lavoro nero, dello sfruttamento del lavoro in agricoltura e di riallineamento retributivo nel settore agricolo. Ma cosa è successo dalla passata stagione di raccolta dei pomodori ad oggi? Lo abbiamo chiesto a Giovanni Mininni, segretario nazionale della Flai Cgil, da anni impegnato sul tema. “Le ragioni dell’economia prevalgono ancora sulla legalità e sul rispetto delle persone – racconta Mininni -. Quando parte la campagna del pomodoro è una guerra nelle campagne e il fatto che sia stata maggiormente meccanizzata riduce soltanto l’impatto del fenomeno, ma non cancella lo sfruttamento”.
Sono tre gli strumenti messi in campo dal passato governo contro lo sfruttamento dei lavoratori nel settore agricolo e il caporalato. Per prima è arrivata la Rete del lavoro agricolo di qualità, poi un protocollo sperimentale, infine una legge. Di questi tre strumenti, però, il secondo non c’è più.
Il protocollo. Ha anticipato la legge 199 del 2016 di qualche mese e sotto lo slogan “Cura, legalità e uscita dal ghetto” aveva avviato un percorso sperimentale contro il caporalato. Presentato come l’asso nella manica da ben tre ministri (Poletti, Alfano e Martina) e controfirmato dalle Regioni Calabria, Basilicata, Puglia, Campania e Sicilia, dopo qualche tentativo avviato qua e là, il protocollo è giunto a naturale conclusione il 31 dicembre 2017 senza troppi clamori. “Potrà essere prorogato o riproposto, previa verifica dei risultati proposti”, cita l’articolo 7, ma ad oggi non c’è traccia né di verifiche, né di proroghe. Già un anno fa, sempre su Redattore sociale, avevamo raccontato i pochi obiettivi raggiunti a distanza di un anno dalla presentazione del documento. Oggi, per Mininni, non ci sono dubbi. “Il protocollo nazionale è stato un fallimento – racconta -. Di tutte le misure previste, come l’istituzione del tavolo di coordinamento e le modalità con le quali bisognava aprire un confronto tra ministeri competenti e le associazioni firmatarie non è stato mai fatto nulla”.
Il protocollo, infatti, è stato firmato anche da Acli, Caritas, Ispettorato nazionale del lavoro, Croce rossa italiana, Libera, Alleanza delle cooperative italiane, Coldiretti, Confagricoltura, Cia, Copagri, Flai Cgil, Fai Cisl e Uila Uil. Per Mininni, la responsabilità di questo fallimento è “in primis del ministero del Lavoro a cui era affidato il coordinamento – aggiunge -. Quel protocollo, però, ha prodotto ulteriori protocolli provinciali. Su iniziativa delle prefetture, e non dappertutto, le misure previste dal protocollo nazionale sono state applicata a livello territoriale. E’ l’unico effetto positivo che ha provocato: una sensibilità in alcuni territori, non in tutti, e una risposta. Il problema, però, è che anche in questo caso non si è andati oltre alla sottoscrizione di protocolli provinciali“. Sono poche, infatti, le esperienze nate. A Lecce, racconta Mininni, è stato realizzato un campo di accoglienza, oppure a Campobello di Mazara (Trapani) dove è partita la prima sperimentazione sul collocamento pubblico, anche se fuori dal protocollo nazionale. Poche esperienze positive a fronte di un fenomeno fin troppo diffuso. E l’effetto protocollo sembra essersi esaurito. “Abbiamo chiesto ai ministeri competenti di prorogarlo, ma ci è stato risposto che ormai c’era la legge 199 e non c’era più bisogno – racconta Mininni -. In realtà, non è proprio così, perché nel protocollo venivano indicate anche delle risorse da mettere in campo per poter contrastare il fenomeno. E soprattutto era calibrato su accoglienza e integrazione dei lavoratori immigrati presenti nei ghetti del nostro paese. La legge, invece, guarda al problema in senso ampio”.
La legge. Quest’anno la legge 199 compie due anni, ma ad oggi, nonostante non siano mancate operazioni di contrasto e di polizia nelle campagne, non ha ancora lasciato il segno. “La legge sta producendo sicuramente i primi risultati da un punto di vista di operazioni di polizia – racconta Mininni -: ha prodotto i primi arresti, sia di caporali che di imprenditori, stanno per partire alcuni processi, ma noi siamo più propensi a lavorare sulla seconda parte della legge che prevede azioni positive da mettere in campo per prevenire questi fenomeni”. Intanto, nelle campagne tutto sembra continuare come se non ci fosse la 199. “Non riusciamo a capire come in alcuni territori dove facciamo sindacato di strada, così come li vediamo noi i furgoni non li vedano le forze di polizia e chi dovrebbe essere chiamato a intervenire subito. Da quei furgoni possono partire indagini per capire da dove partono, dove arrivano, le aziende coinvolte”.
Per Mininni, c’è il rischio che anche quest’anno possa passare senza interventi concreti contro il caporalato, al di là delle operazioni di polizia. “C’è il rischio che per la seconda volta si perda l’occasione di intervenire per impedire cose così lampanti e sotto gli occhi di tutti – racconta -. Al di là di alcune operazioni che periodicamente vengono condotte, lo Stato non mette in campo altri interventi. Questo problema lo possiamo affrontare se lo Stato mette in campo più azioni contemporaneamente, altrimenti l’operazione di polizia diventa una spettacolarizzazione del fenomeno e pocoincide sulla realtà. A Foggia, per la seconda volta, rischiamo di perdere l’opportunità di intervenire. Non ci sono ancora strumenti che funzionano: non c’è un collocamento pubblico, non c’è un trasporto legale degno di questo nome che possa fare in modo di non fermare l’attività delle imprese e le forze dell’ordine evidentemente chiudono un occhio sui furgoni che la mattina continuano a girare”. In Capitanata, però, qualcosa si sta muovendo. “Si sta compiendo uno sforzo enorme nella sperimentazione della prima sezione territoriale della Rete del lavoro agricolo di qualità – spiega Mininni -, soprattutto per merito del prefetto Iolanda Rolli, uno sforzo che si scontra con la burocrazia locale e chi rema contro”.
La rete. Nato come “organismo autonomo” per “rafforzare le iniziative di contrasto dei fenomeni di irregolarità e delle criticità che caratterizzano le condizioni di lavoro nel settore agricolo” (come cita il sito del Mipaaf) la Rete del lavoro agricolo di qualità doveva realizzare una sorta di argine contro lo sfruttamento realizzato con la partecipazione attiva delle aziende. A quasi tre anni dalla sua nascita, però, arranca ancora. Basta guardare ai numeri: le aziende che ad oggi sono entrate a far parte della rete istituita presso l’Inps sono poco meno di 3.500 a fronte di una platea di possibili aziende destinatarie del progetto che supera le 100 mila unità. A settembre 2017, le aziende iscritte erano poco più di 2 mila. “La rete funziona molto lentamente – spiega Mininni -, ma penso che sia ancora una scelta giusta. Naturalmente ha le sue difficoltà: ad esempio il regolamento che la cabina di regia non è ancora riuscita a darsi”. C’è qualcuno, però, che rema contro, spiega il segretario nazionale della Flai Cgil. “La rete del lavoro agricolo ha ancora oggi i suoi detrattori – assicura Mininni -. Quasi come se si fossero messi alla finestra a guardare e aspettare il fallimento di questo esperimento, non cogliendo il fatto che invece potrebbe essere una grande opportunità per le imprese italiane per valorizzare l’agricoltura italiana”. Sebbene la rete del lavoro agricolo di qualità abbia dei limiti, per Mininni può rappresentare ancora un’opportunità per le aziende. “La Regione Emilia Romagna, ad esempio, ha adottato anche su nostra spinta un punteggio in più nei bandi per quelle imprese che sono iscritte alla rete. Questa cosa ha prodotto un boom di iscrizioni da parte delle imprese agricole della regione. Una cosa simile è stata fatta dal comune di Roma che per valorizzare alcuni mercati rionali richiedeva come requisito per le aziende ortofrutticole l’inscrizione alla rete. Noi abbiamo registrato molte iscrizioni di imprese romane. Azioni positive che, invece, non sono state fatte in altre regioni”. (ga)