Solo lui poteva riunire a cena, tutti insieme a Trastevere, Sergio Leone, Robert De Niro, Muhammad Alì e Gabriel García Márquez. Solo lui poteva intervistare per sedici ore Fidel Castro e diventare amico intimo di Sepúlveda, dopo esserlo stato di Mennea, di Maradona e di Pantani. Lui è Gianni Minà, un giornalista fuori dal coro, una straordinaria voce critica che molti mediocri hanno cercato di spegnere e che è sempre sopravvissuta ad ogni tentativo di boicottaggio e di censura.
Minà compie ottant’anni e, più che celebrarlo, vogliamo riflettere sulla sua idea di giornalismo e di vita, sulla sua visione del mondo e sul suo scoraggio di schierarsi, sempre e comunque, dalla parte degli ultimi, degli oppressi, degli sventurati (pensate al povero Troisi), di coloro che non compaiono nelle pagine della grande storia o che, quando vi compaiono, vengono il più delle volte schierati dalla parte del torto.
Gianni Minà, ad esempio, non ha mai negato le responsabilità di Maradona nel suo processo di auto-distruzione umana e sportiva ma, al tempo stesso, ne ha evidenziato la persecuzione per le sue idee politiche filo-castriste e filo-cubane, come quando, in occasione dei Mondiali americani del ’94, venne prima chiamato per favorire la vendita dei biglietti, fino a quel momento inferiore alle attese, e poi squalificato con pubblica gogna per aver assunto una sostanza che, guarda caso, era vietata solo negli Stati Uniti. “Giocò, vinse, pisciò, fu sconfitto” scrisse Galeano con il suo solito genio, mettendone in risalto la risalita e il declino, prima che la sua carriera volgesse all’epilogo e, con essa, si concludesse una parentesi importante della storia del calcio mondiale.
Minà non ha mai sopportato i cantori dell’ufficialità, gli storici di Stato, quelli che stanno dalla “parte giusta”, i menestrelli del potere e i narratori di comodo, quelli che adattano la verità in base alle proprie convenienze e trovano sempre il modo per far carriera e lucrare su qualsiasi vicenda.
Egli, al contrario, in ottant’anni di vita, si è seduto quasi sempre dalla parte del torto, pagando per questo un prezzo altissimo e subendo in RAI un esilio che non è mai finito, che dura ormai da vent’anni e che ha portato con sé un drammatico scadimento della qualità dell’informazione e del servizio pubblico.
Eppure non si è fermato, non si è lasciato andare: ha continuato a lottare, a realizzare documentari meravigliosi, a vincere premi internazionali, a pubblicare la sua rivista, “Latinoamerica”, a scrivere articoli, a muovere e a ricevere critiche, rimanendo se stesso e meritandosi a pieno l’affetto di un pubblico che non ha mai smesso di stimarlo e di seguirlo. Anche perché è difficile non voler bene a Gianni Minà, non considerarlo un maestro e non provare persino un po’ di invidia nei confronti di un uomo e di un professionista che ha incontrato il mondo ed è stato amico di tanti rivoluzionari e di molti di coloro che, nei rispettivi settori, hanno scritto la storia e modificato per sempre gli equilibri e il sentire comune. È capitato anche a lui nel giornalismo ma guai a dirglielo: Gianni non è un personaggio da celebrazioni, non le sopporta. Gli basta essere considerato una persona perbene e su questo punto nemmeno i suoi più feroci detrattori hanno mai potuto opinare. Semmai se ne sono fregati.
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