di Angiolo Pellegrini
Il 23 maggio 1992 si verificava l’attentato più grave nella storia della giovane Repubblica italiana: l’esplosione di 500 chilogrammi di tritolo, posti all’altezza di Capaci e, di conseguenza, la morte del magistrato Giovanni Falcone, di Francesca Morvillo e dei tre agenti di scorta.
Perdeva la vita quel “giudice” che mi piace definire ”lo scienziato dell’attività istruttoria ed investigativa” mente e coordinatore del pool antimafia che, in soli 4 anni (1980 – 1984), era riuscito a dimostrare che la mafia esisteva come organizzazione unitaria e gerarchicamente strutturata, e, nello spazio di poco più di dieci anni, al termine del più grande processo mai celebrato al mondo, ad ottenere la condanna per i capi a 19 ergastoli e per gli appartenenti all’organizzazione a 2665 anni di reclusione
La mafia, nata come associazione segreta, radicata in una subcultura ben definita era riuscita per lungo tempo a far pesare sulla società la sua forza intimidatrice e, nel contempo, a fare sorgere nei suoi confronti il consenso, adattandosi apparentemente ai canoni di giustizia propri della società delle aree meridionali.
Ma, come si sarebbe potuto e dovuto prevedere, i settori d’intervento della mafia all’inizio degli anni 70 non erano più limitati a quelli tradizionali della Sicilia agricola: in pochi anni si sarebbe assistito a sempre più stretti collegamenti delle organizzazioni mafiose siciliane con quelle della Calabria e della Campania, prima nel settore del contrabbando dei T.L.E. e, poi, nel traffico degli stupefacenti, gradualmente esteso in tutto il mondo.
La mafia, con l’aumento vorticoso del consumo delle droghe, ha sentito la necessità di disporre di grossi capitali con conseguenti enormi utili che attrassero nel “ gioco” anche coloro che potremo definire di “terzo livello”.
Quando la mafia – divenuta ricchissima – tanto da ritenersi più forte dello “Stato legale” – esce allo scoperto, la lotta si radicalizza ed, in conseguenza, della più decisa azione di contrasto degli organi investigativi dello Stato, si assiste ad una reazione quanto mai violenta, sfociata negli omicidi del T.C. Russo, dei Capitani Basile D’Aleo, del Maresciallo Ievolella, del V. Questore Boris Giuliano, dell’agente Zucchetto, dei Magistrati Terranova, Costa, Chinnici e del Prefetto dalla Chiesa.
Ma, nello stesso tempo si verificano alcuni fatti importanti: la perdita progressiva del consenso da parte della popolazione, l’affermarsi di nuovi metodi d’indagine, la convergenza degli sforzi della magistratura e delle forze di Polizia, l’approvazione della c. d. ”legge Antimafia”.
E’ vero che il traffico internazionale di stupefacenti coinvolge una vera e propria multinazionale del crimine: i produttori di oppio del Medio Oriente, i contrabbandieri italiani, francesi e greci, addetti al trasporto della morfina, i gestori dei laboratori di produzione dell’eroina in Sicilia, i corrieri siciliani e italo – americani per la distribuzione degli stupefacenti in USA ed in Canada e per il ritorno in Sicilia di ingentissime quantità di dollari e le collusioni politiche per il riciclaggio del denaro.
Ma, se è vero che la complessità degli accertamenti comporta grandi difficoltà per gli investigatori e per i magistrati, sono proprio tali difficoltà ad introdurre metodi d’indagine nuovi: in particolare si prende coscienza che il punto debole del fronte della mafia è costituito dalle tracce che lasciano i grandi movimenti di denaro.
Falcone, proseguendo su questa strada, riesce a dimostrare dopo ben 18 secoli la mancata attualità dell’assunto, tramandatoci dallo storico latino Svetonio, “Pecunia non olet”.
E’ nato quello che sarebbe divenuto il famoso ”metodo Falcone”. Falcone, infatti, capovolse il metodo d’indagine : il Giudice Istruttore anziché lavorare , come era stato sempre fatto, su quanto riferito dalle forze di Polizia, assunse in prima persona lo svolgimento delle indagini, compiendo direttamente atti istruttori e delegando una serie impressionante di accertamenti, approfondimenti, indagini, riuscendo così a pervenire ad una visione unitaria del fenomeno mafioso.
Riunì vari processi, pur se sembravano non riconducibili a gruppi criminali tra loro collegati ( Spatola più 119, Gerlando Alberti, Mafara Francesco, sequestro Sindona, arresto del belga Gillet e poi Greco Michele più 161, Riccobono Rosario più 39, Provenzano Bernardo più 29 ), evidenziando che avevano tutti numerosi dati in comune e, soprattutto, il coinvolgimento nel traffico di stupefacenti e nel riciclaggio del denaro.
In sostanza, la capacità di sintesi, la memoria eccezionale, la visione strategica del problema consentì a Falcone di realizzare una sorta di enorme mosaico, sul quale riuscì a porre, ciascuno al posto giusto, migliaia di tessere, fornendo così una rappresentazione attuale ed aggiornata di “Cosa Nostra”, un’organizzazione unitaria, verticistica, con i propri organi di comando a livello provinciale e regionale, con collegamenti in tutta Italia e nel mondo intero.
Lo stesso Falcone in un suo intervento alla tavola rotonda, organizzata a Palermo nel 1984 da Unicost, ha affermato:
“Negli ultimi anni, uno sparuto drappello di magistrati e di appartenenti alle FF.PP. ha cominciato in più parti d’Italia ad impostare le indagini in modo finalmente adeguato alla complessità del fenomeno ed i risultati non si sono fatti attendere. E’ cominciata ad emergere una realtà di enormi dimensioni ed inquietante, solo intuita nel passato”……… “Non ci si è lasciati scoraggiare dalle difficoltà e, fra l’indifferenza e lo scetticismo generale, si è proseguita la via intrapresa cominciandosi ad ottenere i primi risultati: la positiva verifica dibattimentale di istruttorie particolarmente complesse riguardanti organizzazioni mafiosi ed efferati delitti di stampo mafioso”……. “Dall’iniziale separatezza fra i diversi organismi preposti alla repressione del fenomeno mafioso, si è passati in pochissimi anni, superando ostacoli ed incomprensioni di ogni genere, ad un clima di collaborazione di reciproca fiducia, impensabile fino a poco tempo addietro”.