Separati da formazione culturale, stile di vita e attività, Giulio Andreotti e Guido Carli si trovarono uniti nei primi anni Novanta, quando il Divo Giulio ebbe bisogno dell’autorevolezza dell’ex governatore della Banca d’Italia nonché ex presidente di Confindustria per condurre l’Italia in Europa attraverso il discutibile Trattato di Maastricht .
Di Andreotti, del suo cinismo, dei suoi processi e delle sue decisioni, spesso tutt’altro che limpide, si è detto e scritto di tutto. Allo stesso modo, conosciamo bene la cultura economica, la saggezza e il rigore morale di uno dei governatori più longevi ed influenti, alla cui scuola si sono formati alcuni dei principali protagonisti della vicenda politica italiana dell’ultimo quarto di secolo: da Ciampi a Dini a Tommaso Padoa-Schioppa. E non è un caso se, svanita la classe politica della cosiddetta Prima Repubblica, nella Seconda ci sia spesso dovuti affidare alle competenze della nostra ENA per arginare la deriva di un Paese che più di una volta ha rischiato seriamente odi deragliare.
Cinque anni senza Andreotti, venticinque senza Carli: due biografie assai diverse che, tuttavia, si incrociarono in uno dei momenti peggiori della nostra storia, alla vigilia di Tangentopoli, delle stragi di mafia e dell’ascesa di un gruppo di potere di cui abbiamo avuto modo di constatare e denunciare per cinque lustri la dannosità; un gruppo di potere che è il principale responsabile dello sfacelo in cui versano oggi le istituzioni.
Del primo, dunque, al netto dei suoi misteri, delle sue trame segrete e dell’essere stato troppo a lungo l’incarnazione di un potere fine a se stesso, conservato ad ogni costo, con ogni mezzo, fino ad accartocciarsi su se stesso e ad essere travolto dalla propria vecchiezza, del primo, dicevamo, ci manca soprattutto la profonda conoscenza del mondo e degli uomini, della strategia e del sistema, ossia le caratteristiche di cui difettano pressoché del tutto gli attuali leader.
Del secondo, invece, ci manca la visione, la stessa che gli ha permesso di trasformare la Banca d’Italia nel vertice della nostra pubblica amministrazione, in un’eccellenza da tutti riconosciuta e rispettata anche in ambito internazionale.
L’impressione è che, più che mai, di entrambi ci manchi il profondo rispetto che nutrivano nei confronti delle istituzioni, la capacità di mantenersi sempre e comunque lucidi e la forza d’animo non comune con cui hanno saputo gestire anche fasi devastanti della nostra storia, quando davvero si temeva che lo Stato potesse soccombere sotto i colpi della violenza, del terrorismo e degli innumerevoli atti di barbarie cui abbiamo assistito dal dopoguerra in poi.
Del Divo rimane la sua apparente eternità, il suo esserci stato dal ’46 in poi, sempre al centro della scena, sempre in ruoli di primo piano, imprescindibile, con uno stuolo di nemici e un’altrettanto fitta schiera di sostenitori, adulatori e clienti.
Di Carli rimane la capacità di compiere scelte difficili nei momenti necessari, il coraggio e la lungimiranza.
Due anniversari, due addii, numerosi non detti e innumerevoli rimpianti. Se non altro erano uomini, e non è affatto poco.
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