Mattarella all’ultimo tentativo lunedì, poi il voto

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Direzione Pd: Martina rilegge Renzi, che lo applaude, ma lo tiene come ostaggio, riprendendosi il partito

Di Pino Salerno

I partiti hanno i giorni contati. Le loro liti, i veti, gli insulti, i finti accordi, le lotte intestine non avranno più spazio di manovra al Quirinale. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha fatto sapere che lunedì prossimo, 7 maggio, svolgerà un nuovo, e ultimo, giro di consultazioni per tentare di trovare una maggioranza che sostenga il nuovo governo. Prima il M5s, poi il centrodestra unito e infine il Pd, in mattinata. Nel pomeriggio, poi, sarà la volta dei gruppi di LeU, Autonomie, Misto e dei presidenti delle Camere. È l’ultima chance che il capo dello Stato concede ai partiti dopo che le posizioni, a distanza di due mesi dal voto, sono rimaste immutate. In questo lasso di tempo, viene sottolineato al Colle, “non è emersa alcuna prospettiva di maggioranza di governo”. Dopo il fallimento del rapporto Lega-M5S “nei giorni scorsi è tramontata anche la possibilità di un’intesa tra Movimento 5 Stelle e Partito Democratico”. I tempi ormai stringono e le vie d’uscita da una situazione sempre più incastrata sono sempre meno. Le voci che circolano sul nome del futuro premier, a parte Salvini e Di Maio, sono tante – dai presidenti delle Camere al leghista Giorgetti per arrivare all’ex presidente del Consiglio di Stato Pajno – ma nessuno sembrerebbe allo stato in grado di poter garantire ciò che chiede espressamente Mattarella: la governabilità. Ecco allora la drammatizzazione fatta dal Colle dei tempi delle consultazioni di lunedì: tutte in un giorno, per mettere alla prova i partiti che in quella sede dovranno proporre, se le avranno, soluzioni per uscire dall’impasse.

Mattarella preoccupato per le condizioni difficili dell’economia, dalla manovra correttiva alle clausole per evitare l’aumento dell’Iva

Fino ad oggi Mattarella ha provato tutto quello che i partiti gli hanno chiesto di provare. Ora è arrivato il momento di porre la parola fine e lunedì sarà il momento per il centrodestra nel suo insieme, per la Lega, per il Movimento 5 Stelle, per il Pd di mettere sul tavolo – se ci sono – ulteriori ipotesi di lavoro. Ma il tempo è scaduto e non ci sarà più la possibilità di riparare, di chiedere altra disponibilità al capo dello Stato. Quello che preoccupa maggiormente Mattarella è la situazione economica del Paese. E la mancanza di un governo nella pienezza dei poteri (e di un Parlamento funzionante) non è certo di aiuto. Ecco allora che in caso di ulteriore esito negativo delle consultazioni – e i rapporti fra e nei partiti che emergono in queste ore non inducono all’ottimismo – il capo dello Stato sarà portato a fare la sua scelta. Accantonata la possibilità di votare fra fine giugno e luglio Mattarella potrebbe dare vita ad un cosiddetto “governo di tregua”, guidato da una figura terza. Un governo che, se dovesse ricevere la fiducia dalle Camere, si impegnerebbe nel varo della Finanziaria e affronterebbe il tema dell’aumento dell’Iva. Misura che se dovesse scattare senza essere accompagnata da altre misure risulterebbe deprimente per la nostra economia, con la discesa dei consumi e il conseguente calo dell’occupazione. Insomma un governo per la manovra che però, se bocciato in Parlamento, si trasformerebbe in un governo elettorale, con il compito di gestire il ritorno alle urne presumibilmente ad ottobre. Una ipotesi, quest’ultima, non ben vista da Mattarella, perché porterebbe il nostro Paese all’esercizio provvisorio. In caso di elezioni a ottobre è facile prevedere (a meno di improbabili sorprese) che il voto si svolga con l’attuale legge elettorale e che il risultato non sia dissimile da quello del 4 marzo. Difficoltà quindi nel formare un governo e impossibilità di procedere al varo della Finanziaria, con il nostro Paese in esercizio provvisorio ed esposto pericolosamente alle turbolenze dei mercati. Siamo insomma all’ultima chiamata, all’ultima possibilità che Mattarella dà ai partiti “per verificare se abbiano altre prospettive di maggioranza di governo”. I quali, nel caso di ennesimo fallimento, dovranno essere capaci di prendersi le loro responsabilità davanti al Paese.

Mentre Salvini si candida a premier incaricato, nel Pd avanza il compromesso, nel più coerente stile doroteo

Nel frattempo, mentre è ancora in corso un’agitatissima direzione del Partito democratico, con una quarantina di interventi e il finale col voto previsto in tarda serata, il leader della Lega Matteo Salvini, a quanto si apprende, mette le mani avanti e si dichiara pronto ad accettare un pre-incarico dal presidente Mattarella, se decidesse in questo senso, ed è pronto ad andare in Parlamento sulla base di un programma (dai migranti alla Flat Tax, dal sostegno al reddito all’abolizione della Fornero) sul quale chiedere il sostegno ai parlamentari di altre forze politiche. L’auspicio, si apprende ancora, è che ci sia una convergenza da parte del M5S o da parte di un gruppo di parlamentari che condividano il progetto laddove si esclude ogni tipo si alleanza con il Pd. E mentre Salvini si candidava, il segretario reggente del Pd, Maurizio Martina, illustrava, nella sede del Nazareno blindata ai giornalisti, le sue riflessioni e le sue proposte. Per Martina il Pd può “farcela se ricominciamo a lavorare insieme sul senso della prospettiva che vogliamo per il nostro Paese. Su un’idea di futuro per gli italiani, molto prima dei nostri destini. Possiamo farcela se iniziamo davvero le nostre battaglie per l’allargamento del Reddito di inclusione contro la povertà, per l’assegno universale alle famiglie con figli, per il salario minimo legale contro il lavoro sotto-pagato e i contratti pirata. Per la parità salariale di genere. Per i diritti dei giovani lavoratori. Possiamo farcela se arriviamo prima di altri a rispondere ai bisogni delle 900mila madri single del nostro paese, di cui ben la metà rischia la povertà e certamente oggi più in difficoltà delle altre madri. Possiamo farcela anche se smettiamo di chiamarci in modo esasperato renziani, antirenziani, martiniani, orlandiani, e via dicendo, ciascuno si inventi la sua etichetta, ma se ritroviamo invece l’orgoglio di essere prima di tutto e solamente democratici. Basta – ha scandito Martina – con la logica dell’amico-nemico in casa nostra. Possiamo farcela se decidiamo una volta per tutte di curare la nostra autoreferenzialità, se apriamo porte e finestre all’impegno di altri con noi e se la smettiamo di scambiare la lealtà che si deve sempre a un impegno politico con la cieca fedeltà acritica di stagione. A Roma come nei territori. Riprendiamo lo spirito originario del partito democratico. Proviamo a dare ancora al Paese alimentare noi un solido punto di riferimento. Non è impossibile”. E infine, “con il M5S il capitolo è chiuso”, mentre  è “impossibile” che il Pd sia “socio” di un governo con Salvini, Berlusconi e Meloni, anche perché “non vedo capitale umano né grandi costituenti tra chi minaccia querele e tribunali”. L’esito finale di questo ragionamento? Lo rivela lo stesso Martina: “ora il dato di fatto è il rischio di voto anticipato”.

L’area del Pd che si riconosce in Matteo Renzi ha apprezzato la relazione del segretario reggente Maurizio Martina in particolare nel passaggio in cui ha specificato che con i Cinquestelle il “capitolo è chiuso”. L’accordo con il M5S secondo i renziani sarebbe “morto”, avrebbe quindi prevalso nella relazione del segretario la posizione sostenuta dall’area che fa capo all’ex premier. Se questa linea verrà confermata nella direzione, i renziani potrebbero rinnovare la fiducia al reggente fino all’assemblea o attraverso un voto o con il documento di mediazione su cui in queste ore sta lavorando Lorenzo Guerini insieme ai ‘pontieri’ del Pd. Nel documento oltre a ribadire il ‘no’ a un governo con i Cinquestelle si prevede la fiducia a Martina fino all’assemblea. Di fatto, significa che Martina si consegna all’ex segretario, e gli restituisce l’egemonia nel Pd. Una deriva che di certo avrebbe ricevuto l’applauso dei più attenti seguaci del doroteismo, mai morto.

La direzione del Pd tanto attesa per un dibattito politico serio delude. Il gruppo dirigente rinvia ancora una volta

Alla fine della direzione ciascuno è convinto di ‘avere vinto’: tutti ribadiscono che l’unità è salva, ma ciascuno si intesta il trionfo. I renziani perché ha prevalso la linea indicata da Matteo Renzi del ‘no’ alla alleanza con i Cinquestelle. I non-renziani perché Maurizio Martina ha ricevuto il mandato pieno con il voto sulla sua relazione e non sull’ordine del giorno depositato da Lorenzo Guerini, che le minoranze non avrebbero votato. Se gli uni vogliono far passare lo stop al M5S come una resa del reggente, gli altri ribattono che l’intesa con Di Maio era già naufragata domenica. “Macché resa incondizionata”, tuona Dario Franceschini. “E’ talmente chiaro che il confronto Pd-M5s era già arenato da lunedì – lasciano trapelare parlamentari vicini a Martina – che già questa mattina, prima della direzione, il Quirinale ha informato delle nuove consultazioni per lunedì prossimo”. Non solo, le minoranze interpretano a loro vantaggio anche il silenzio di Renzi durante tutti e 35 gli interventi che si sono susseguiti in 5 ore di direzione. Scelta che i renziani rivendicano come atteggiamento di ascolto. Anche se, proprio mentre è in corso la riunione dei Dem, viene diffusa l’intervista che il senatore di Impruneta ha rilasciato lunedì in cui assicura che con il reggente non c’è scontro. Fino all’ultimo poi c’è il giallo del nuovo documento di mediazione promosso dal coordinatore della segreteria Pd, già padrino dell’appello fatto firmare a ventiquattr’ore dalla direzione, la famosa “conta per evitare la conta” che aveva plasticamente dimostrato come in direzione Renzi abbia ancora la maggioranza (121 le firme raccolte su 209 membri del parlamentino dem). Alla fine il compromesso viene trovato: i renziani rinunciano a votare il documento e votano la relazione di Martina, ma su tutti i punti della ‘mediazione’ prevista dai renziani ottengono di fatto il via libera. C’è soltanto una questione fondamentale, che riescono a inserire le ‘minoranze’: lo stop a qualsiasi intesa del Pd con il centrodestra mascherata da governo di tutti. Non un punto di pococonto. Ma la guerra è soltanto rinviata e correrà tutta sul filo dei numeri. I non renziani infatti puntano il dito contro il fatto che Renzi non avrebbe più la maggioranza schiacciante di una volta, non solo in direzione ma anche nei gruppi parlamentari. Prossima tappa del duello di un partito al 18 per cento sarà l’assemblea nazionale – in cui l’ex segretario fino a prova contraria la fa da padrona – attesa presto, probabilmente entro maggio.

Da jobsnews


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