BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

Intimidazione ai giornalisti. L’isolamento è la minaccia più grande

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La minaccia più grande è l’isolamento da parte degli stessi colleghi. Suona come un tradimento in famiglia, vanifica gli sforzi della parte sana della categoria. Indigna. Sono testimone dell’accusa in un processo delicato, sono anche stata rinviata a giudizio con imputazione coatta per diffamazione (per questo sarò in aula il prossimo ottobre) per un’inchiesta relativa all’incastro nel sistema bancario di criminalità organizzata, politica, finanza, imprenditoria. Tornassi indietro rifarei tutto. E soprattutto mi rimetterei in discussione, com’è accaduto anni fa, quando un direttore mi disse che ero scorretta a voler fare un’inchiesta che smascherasse i reati che si commettevano all’interno di Antiracket Salento (associazione con sedi a Lecce, Brindisi, Taranto, che ebbe imprimatur e finanziamenti dal Ministero dell’Interno), associazione di cui ero addetta stampa e da cui mi dimisi rinunciando a mille euro al mese e denunciando alle autorità competenti. Scorretta perché avevo lavorato lì e volevo farne un’inchiesta. Oggi Antiracket Salento non esiste più, la presidente e altre persone sono state arrestate, ci sono decine di indagati e beni per milioni di euro sequestrati, un processo in corso per truffa. Testimonierò. A schiena dritta.

Ma allora, era il 2014, sentirmi definire scorretta significò crollo. Di certezze e di punti di riferimento. Ero sola, io e le mie idee. Non avevo punti di riferimento. E chissà, mi chiesi, forse stavo sbagliando davvero. Forse vedevo marcio dove non c’era, forse dovevo fermarmi, prendere tempo e capire fino a dove si spingesse il mio dovere di informare, di scoperchiare, di scrivere.
Farti sentire dalla parte sbagliata è la forma più subdola e sfiancante di minaccia. Là dove non c’è verità, anche quella di dire “la tua inchiesta non ci interessa. Punto.”, non c’è libertà né giustizia.
Non siamo eroi, siamo giornalisti. Non impiegati della comunicazione ma artigiani della notizia, con una responsabilità grossa sulle spalle: dare verità ai lettori. Anche, soprattutto, quella scomoda.

Le porte chiuse in faccia da alcuni colleghi mi hanno costretto a continuare per la mia strada, da sola. Ho preso le mie inchieste, come un fagotto, e le ho portate in giro con me. Pubblicandole dove mi è stato consentito, da free lance, e ne ho pagato il prezzo.

Per Antiracket Salento, sono stata citata per danni. Oltre ad aver perso il lavoro, per mia scelta, ho dovuto subire il pressing di atti giudiziari, lettere, diffamazione, offese, costi vivi per una difesa legale, notti insonni, e il procedimento civile contro di me è ancora in corso. Sul fronte penale sono pronta a testimoniare, ma ritengo necessario far emergere un altro lato assurdo e doloroso di questa storia: le ritorsioni doppie subite dalle vittime di racket e usura che si rivolgevano a quello sportello, taglieggiate e minacciate dall’ “antimafia sociale”. È gravissimo, inammissibile, e va detto, scritto, documentato. Io non dimentico. Abbiamo il dovere di scriverne. Quelle vittime due volte sono cittadini, sono lettori, persone che hanno avuto ancora una volta il coraggio di parlare, raccontare, affidandomi le loro storie. Ecco perché ripeto, non siamo eroi siamo giornalisti. In questo la scorta mediatica,aiuta. È fondamentale per avare inchiostro a sufficienza nelle nostre penne.

E poi ci sono gli insulti, gli epiteti coloriti specie se sei donna, la macchina del fango sul privato e la famiglia, le minacce vestite da querele, le telefonate per “rivedere” i contenuti degli articoli, gli sguardi torvi, i consigli a dare un freno per evitare guai peggiori.

L’ho vissuto e lo vivo da quattro anni pure questo. Inchiesta Bcc Terra d’Otranto, ancora una volta Salento, casa mia. Anche in questo caso il mio lavoro ha viaggiato con me, su testate diverse, anche su Formiche.net, Corriere.it, Plus 24 de Sole24Ore, oggi su IlTaccoditalia.info e Liberainformazione.

Numerosi indagati per estorsione aggravata da metodo mafioso, violenza privata, truffa, riciclaggio. Sacra corona unita e ndrangheta legate a doppio filo con l’attività di amministratori pubblici, impiegati di banca, governance dell’istituto di credito, imprenditori. Gente nota, stimata, temuta, a seconda dei casi. Nel mirino della Procura il rinnovo del cda nel 2014. Inutile girarci attorno: mafia, signori si parla di mafia. L’indagine va avanti, la mia inchiesta pure.

Sono stata querelata per diffamazione dall’attuale presidente di quella Bcc, il titolo del mio pezzo sul Sole pubblicato il 30 aprile 2016 non fu gradito, eppure provammo a contattare i vertici della Bcc all’epoca con correttezza, ma nessuno rispose. Però querelarono. Attaccando anche altri miei pezzi, scritti dopo aver recuperato e studiato carte ufficiali. Il pm ha chiesto l’archiviazione, il gip si è opposto, a ottobre sarò in aula. E non sarò sola, avrò la mia scorta, Odg e FNSI. Da allora a qualche mese fa, la macchina dell’isolamento però si è mossa lesta. Ho tagliato i ponti con colleghi che non sentivo tali. Mi sono isolata anche io per fare il punto della situazione, ma la querela non mi aveva intimorito, chi mi conosce lo sa. Ho usato il tempo per ragionare, raccogliere altre carte e documenti, intervistare vittime, cercato sponde. E, con grande sorpresa di più di qualcuno, ho ricominciato a scrivere, pubblicando cinque nuove puntate della mia inchiesta su Bcc. I giornalisti si tutelano consentendo loro di fare il proprio mestiere: scrivere. Non con il silenzio.

Nei prossimi giorni riceverò un premio, per le mie inchieste, per la lotta alla mafia. Ma il premio cui ambisco è un altro: fare il mio mestiere, senza bavagli, senza censure. Combattere il muro di omertà, pericolosissimo. Non si dovrebbe essere premiati perché si fa il proprio lavoro. Non c’è niente di eroico in questo. Dovrebbe, deve, essere normale. Per questo ho sottoscritto l’appello di Articolo21 per l’impegno sui cronisti minacciati.


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