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Giornalisti assassinati in Equador. Cronache di un massacro

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Gli ultimi li hanno uccisi il 7 aprile scorso a Mataje, lungo la frontiera dell’Equador con la Colombia: Javier Ortega, 36 anni, cronista, Paulo Rivas, 45, fotoreporter, Efrain Segarra, 60, autista, tutti del quotidiano El Comercio di Quito, Equador. Andavano a fare il lavoro d’ogni giorno, raccontare ai lettori le vicende del paese, insanguinate in quella regione dai delitti dei trafficanti di cocaina e di ribelli armati passati al banditismo. Il 26 marzo dovevano constatare gli effetti dell’attentato a un commissariato di polizia, assaltato da un gruppo che ha disertato dalle Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia (FARC), quando i suoi massimi comandanti hanno scelto di accordare la pace con lo stato e trasformarsi in forza politica legale.

Alla testa del gruppo dissidente c’è un meticcio nato e noto nella zona, poco oltre i trent’anni, un fisico imponente e uno sguardo insondabile: Walter Arizula Vernaza, uno inseparabile dal suo mitragliatore FN2000 che spara 850 colpi al minuto a oltre 300 metri. Lo chiamano Guacho, un soprannome che ha diversi significati ma nel suo caso vuol dire “scalmanato”. E’ lui che Ortega e Riva volevano incontrare, riuscire a fargli dire qualcosa della storia di tradimenti che avrebbero permesso alla DEA, l’agenzia degli Stati Uniti che combatte il narcotraffico, di localizzarlo nelle scorse settimane e tentare di catturarlo vivo o morto. Si sarebbe salvato fortunosamente, deciso a vendicarsi. Qualcuno (forse una donna che Guacho frequenta da tempo in un paesino non lontano), gli avrebbe attaccato indosso un microchip senza che lui se ne accorgesse in tempo.

Quei giornalisti così audaci da andarlo a cercare nella sua tana devono essergli apparsi le esche che cercava per arrivare a chi l’aveva tradito. Ha ordinato di sequestrarli e fatto poi sapere di essere disposto a rilasciarli, se le autorità avessero soddisfatto una serie di sue richieste che a tutt’oggi nessuno ammette di conoscere. Lo ripete ancora adesso che li ha fatti ammazzare senza neppure riconsegnarne i corpi. Attribuisce ai militari dell’Equador e colombiani la responsabilità di aver impedito lo scambio. Ma polizia ed esercito d’entrambi i paesi stanno presidiando l’intera zona da una parte e dall’altra del confine con migliaia di uomini. Ritengono che Guacho e i suoi siano semplicemente la punta di diamante del sistema di autodifesa dei narcotrafficanti della regione, la trattativa solo un pretesto e i giornalisti uccisi perché avevano raccolto prove di quella piena complicità.

Certo è che questo ulteriore e triplice assassinio è avvenuto in una sempre più luttuosa geografia che si estende dal Messico alla Colombia e all’Equador. La smisurata violenza dei narcotrafficanti, il loro potere di corruzione, vi s’incrociano con residui politici e umani di guerriglie sociali ormai contaminate da un bandolerismo senza bandiere e con la denigrazione del giornalista da icona della testimonianza civile a innocua figura sacrificale. Si tratta di una frontiera che corre parallela all’emarginazione sociale e politica, ma soprattutto culturale. Segue un degrado epocale in cui anche valori antichi come il rispetto per l’avversario indifeso ha cessato di essere lo specchio del più forte, del suo onore personale. L’attenzione del lettore è la maggiore protezione del giornalista che scrive per lui.


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