L’ambientazione è vaga, rarefatta, onirica, ma è evidente che ci si aggira fra uno scalo ferroviario (con tanto di ligneo vagone che fa andirivieni per viaggiatori drop-out) e i suoi dintorni di asilo ed anfratti: ovvero per chi non ha più nulla da “infrattare”, nascondere, celare alla vista altrui (per mancanza del “cosa”). Condizione umana, ai bordi della “pezzenteria onirica”, ‘palesata’ con la fierezza di chi non ha più nulla da perdere, ma tanto da vaneggiare, strologare, imprecare contro destini patrigni: che divorano i loro figli, la loro sanità corporea-mentale alla stregua del tremendo Saturno (sempre e comunque “contro” come da omonimo titolo di film).
E’ dunque in questo scalo ferroviario, sospeso fra “la terra e le nuvole”che Salvo prepara la sua alcova notturna, tutta ammennicoli e cartongesso, appendendo alle pareti “pannelli che ricordano lettere dell’alfabeto per analfabeta” – utilizzati quali strambi souvenir del misero paesello l’origine, al quale anela comunque ritornare e, chissà mai, “trovare ‘na brava mugliera” –utopia che non sappiamo se ascrivere alla bonomia del personaggio (alla sua disperata e sorgiva ‘speranza’ di non si sa cosa) o a quel sentimento di sprovveduta chimera che “progresso e interessi dei più forti” attribuiscono (in mala fede) ai giorni ‘contati’ di chi giace nell’indigenza, senza capire che nemmeno essa ha più valore “etico”. Nel più crudele dei campionati ‘mondiali’ dell’excludendum e del farsi fuori per inedia protrattasi in abulia.
Accade poi che sul binario morto l’ingenuo (ma ingegnoso) villanello faccia conoscenza di tale Michele Cervante, ex professore universitario che, espulso dall’esistenza dei “normodotati”, ha scelto lo stesso luogo, agli estremi del nulla, quale “riparo dalle minacce del mondo esterno”; un angolo dove poter annoverare e custodire una certa quantità di libri, preposti (come consigliava Bradbury in Fahrenheit 451) alla salvezza della cultura “dal naufragio della società”. E della geopolitica nella cui voragine si continua a sprofondare: consapevoli o meno, menefreghisti o angosciati, secondo la varietà dei temperamenti, dell’indole e dei personali valori\interessi.
Empaticamente solidali per le rispettive diversità, Michele (Ruggero Cappuccio) e Salvo (Giovanni Esposito) danno vita ad un estroso duetto palesemente ispirato alla poetica dell’Hidalgo ed al visionario sodalizio fra Sancho Panza e il Cavaliere dalla Trista figura, ancor desioso della sua (taumaturgica?) Dulcinea, palesatasi- in seguito- nelle fattezze di una bella e svampita principessa siciliana (nerovestita)
Va da sé che alla squinternata combriccola, tramite oscillazioni del vagone ferroviario (e smarrita discesa degli ‘abitanti’ che vi trovavano ospizio), si aggiungeranno altri esemplari di umanità allo stremo delle forze e di quella “fantasia”- che talvolta tiene in piedi anche in mancanza di “pane e amore”. E quindi: una coppia di vivandieri sfrattati dal “mondo” (Ciro Damiano e Gea Martire), un Duca derelitto e decaduto (Giulio Cancelli) ed, infine, la già annunciata Dulcinea siciliana, amante di cabale ed astronomia (Marina Sorrenti).
Fauna e bestiario di emarginati, loro malgrado, che regala una forte dose di vitalità (e lunare follia) ad un habitat trasandato e in via di sparizione. Riportandoci alla mente che se “i poveri sono matti” (Cesare Zavattini), quelli di ambito partenopeo non possono che esserlo in maniera duplicata e peculiare- con i debiti riferimenti alle iconografia e di Viviani e Scarpetta, le cui melanconie sfociano – nello spettacolo di Cappuccio- in una sorta di dimensione surreale e grottesca, cui non puoi fare a meno di abbinare tante memorie dal “teatro dell’assurdo” e una certa dose (Brecht? Dario Fo?) di “opera dello sghignazzo”, irrefrenabile sia per vitalità sia per auto abbandono ad un vasto campionario di sguardi strabuzzati e senza orizzonte.
Si aggiunga poi che, alla palingenesi dell’ “umanità restante” dovrebbe presiedere (almeno quale scintilla di resilienza) un improbabile convegno di genialità passate e presenti (Vico, Kant, Spinoza, ma anche Pennac, Sepulveda, Roth) presso l’abitazione cisalpina del Maestro Umberto Eco, che “da vivo o da morto” non mancherà di ristabilire il giusto ordine (umanistico e umanitario) d’una galassia (la nostra) che ha smarrito la rotta del bene comune. Ma con “buona volontà” (se la trovi). Un po’ come il caro Luciano De Crescenzo, negli anni di “Bellavista”, amava distinguere l’umana progenie fra “gente di cuore” e “gente di cattiveria”. Fidando e confidando che – almeno in terra napoletana- la prima avesse il meritato primato. E far poi proseliti fra tanta umanità che “volge altrove”.
Immersa nel suo liquido amniotico di sogno e utopia, la favola bella (e vivace) di “Circus Don Chisciotte” ha, sul piano espressivo, una sua indubbia forza dirompente, basata sulla raffinata musicalità del linguaggio (parlato) e sulla ruspante ‘fonìa’ di un palleggio dialogato, centellinato fra le erudizioni dell’eloquio ‘elevato’ (incompreso dagli umili) e la ruspante dialettica di alcuni grammelot (e qui pro quo) che conferiscono dignità e “pezzenteria”(nobilissima) ai contorni di un apologo a volte difficile (o facilissimo?) da decifrare.
Ovvero che “gli ultimi” resteranno tali.
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CIRCUS DON CHISCIOTTE
testo e regia di Ruggero Cappuccio con Ruggero Cappuccio e Giovanni Esposito
e con Giulio Cancelli, Ciro Damiano, Gea Martire e Marina Sorrenti
scene Nicola Rubertelli
costumi Carlo Poggioli
musiche Marco Betta
disegno luci e aiuto regia Nadia Baldi
assistente costumi Enrica Jacoboni
direttore di scena Errico Quagliozzi
macchinista Sebastiano Cimmino
sartoria Tirelli Costumi
Ufficio Stampa a cura di Maya Amenduni
Organizzazione: Sabrina Codato
Produzione Teatro Segreto e Teatro Stabile di Napoli
Al Teatro Eliseo di Roma dal 3 al 22 aprile – a seguire tournée nazionale