Mai il Brasile (e l’intero occidente democratico) ha vissuto una tensione tra popolo e istituzioni, diritti e procedure, politica e senso comune, come questa determinata dall’inusitata condanna di Luiz Inacio Lula da Silva. Un processo per corruzione a carattere indiziario, svoltosi secondo forme arcaiche, prive di essenziali garanzie per la difesa e pertanto da tempo archiviate nel resto del continente e in Europa, ha inflitto al due volte capo di Stato (continuativamente al governo dal 2003 al 2011) 12 anni di reclusione. Le sue ferme dichiarazioni innocenza sono rimaste inascoltate così come le obiezioni procedurali dei suoi avvocati. Mai è tuttavia apparso in dubbio l’ancoraggio all’ordine costituzionale del paese sudamericano, che sia pure tra contraddizioni laceranti mostra sufficiente maturità per reggere la sfida di una crisi che è a un tempo politico-istituzionale, sociale, economica. E appare ancora ben lontana dalla conclusione.
Lula non è solo l’espressione moderata di rivendicazioni storiche giunte infine al governo dell’immenso territorio, in cui latifondisti dello zucchero e del caffè fondarono la Repubblica in odio all’imperatore che contro la loro opinione aveva abolito la schiavitù (1888). Sebbene appaia evidente che l’attuale successore, Michel Temer, stia smontando le riforme grazie alle quali il tenace tornitore meccanico, divenuto sindacalista combattivo e poi presidente della nazione, l’ha modernizzata e resa meno iniqua: così sollevando come mai prima il “gigante sdraiato” cantato dalla poesia patriottica. Lula è soprattutto l’abile dirigente operaio il cui pragmatismo celebrato per anni anche a Wall street ha permesso la realizzazione di una politica di diritti e d’inclusione senza precedenti. E in quanto tale temuto.
In Brasile, il magistrato inquirente che comanda l’istruttoria, dirige le operazioni di polizia, gli interrogatori e seleziona il materiale dell’accusa, è anche il giudice che conduce il processo e decide la sentenza. L’accusa a Lula di aver ricevuto un lussuoso appartamento in cambio di favori illeciti è sostenuta essenzialmente dalle sole ammissioni del corruttore, nella prospettiva di ottenere sconti di pena. Non è mai stata comprovata in via documentale: non ci sono scritture private né registrazioni catastali. Nell’intento di giustificare questa carenza, l’argomentazione di un inquirente -il procuratore Henrique Pozzobon-, a un certo punto scivola per intero nel pantano del sofisma. Il magistrato ammette infatti di non disporre di “provas cabais” (prove inoppugnabili); ma afferma che “proprio la circostanza che Lula non figuri come intestatario dell’appartamento in questione costituisce un modo di occultarne la proprietà” (Cfr. Folha de S. Paulo, 07.04.2018).
In nessun momento il percorso giudiziario del leader più rappresentativo della sinistra riformista latinoamericana è uscito dal solco della complessa dialettica politica brasiliana e anzi ad essa si è intrecciato sempre più strettamente. Lo confermano i sondaggi d’opinione, che in 20 mesi lo hanno portato dal 16 all’attuale 36 per cento nelle intenzioni di voto: dunque il pre-candidato di gran lunga favorito alle prossime elezioni presidenziali (7 ottobre), che ormai potrà seguire solo dal carcere. Le migliaia e migliaia di militanti che lo hanno accompagnato nelle ultime settimane e ore fino all’ingresso nel penitenziario, sempre pacificamente malgrado l’emozione fortissima, ne sanciscono il crepuscolare trionfo di popolo.
A 71 anni, Lula non lascia un delfino politico, il carisma non si trasmette. Né sarà agevole per il Partido dos Trabalhadores (PT), fondato nel 1980 da socialdemocratici, cattolici di sinistra e marxisti di varie tendenze, esprimere un nuovo leader in grado di ricompattarne le diverse anime in un programma da opporre alle controriforme di Temer, già alleato e vice della deposta presidente Dilma Rousseff, convertitosi poi nel suo più insidioso nemico. Tanto i rapporti di forza interni al paese quanto il quadro internazionale appaiono oggi assai più sfavorevoli di qualche anno addietro per le forze riformatrici, che nondimeno devono farsi carico del crescente malessere sociale.
Ma il dramma personale di Lula, destinato comunque a lasciare il segno profondo sugli umori del paese, e le difficoltà del PT amplificano oltre misura il rischio di governabilità per l’intero Brasile. La società fortemente polarizzata, la politica frantumata e scossa da accuse di corruzione che a cominciare dal presidente Temer coinvolgono interi gruppi dirigenti, la miopia dei grandi gruppi economici preoccupati esclusivamente di non retrocedere dalla posizione di decima potenza economica mondiale, caricano di pesanti incognite l’orizzonte della maggiore potenza del subcontinente americano.
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