Attenti a quei popoli che non hanno più niente da perdere. O li sterminate dal primo all’ultimo o non vi daranno pace. Oppure, se davvero è la pace che volete, dovete lasciare il campo alla giustizia.
Questo potrebbe essere lo spassionato consiglio da dare a Israele dopo aver osservato dall’interno le dinamiche createsi a Gaza in questi decenni di sopraffazione e soprattutto dopo questi ultimi 11 anni di assedio.
La “grande marcia del ritorno” iniziata il 30 marzo con la giornata della terra è la risposta esasperata e forse definitiva allo strapotere israeliano che occupa la Cisgiordania e assedia Gaza. Secondo gli organizzatori la marcia non-violenta per ottenere i propri diritti andrà avanti fino al 15 maggio, giorno della Nakba, ma Israele, dall’alto del suo potere arbitrario e senza antagonisti, ha già commesso una strage di innocenti venerdì scorso ed ha minacciato di commetterne una peggiore il prossimo venerdì per impedire che la marcia prosegua.
Davanti alla minaccia di un crimine le istituzioni preposte al rispetto del diritto internazionale dovrebbero intervenire Ma in questo caso non lo hanno fatto. Davanti all’esecuzione del crimine non potrebbero proprio non intervenire. Ma non sono intervenute. Quindi Israele il prossimo venerdi commetterà una nuova strage come già minacciato, forte dell’impunità e del tacito assenso ottenuto col silenzio o tutt’al più il balbettio di governi e Istituzioni internazionali.
Questo lo sanno bene gli organizzatori della “grande marcia” eppure non demordono.
Siamo andati a passare una giornata con loro per capire cosa li muove a sfidare la morte senza che sia visibile una vera e propria strategia vincente.
Siamo andati in uno dei punti caldi, a est di Khan Younis, dove venerdì scorso i cecchini israeliani hanno fatto tre vittime e un numero imprecisato di feriti, esattamente a Khuza’a, cittadina già pesantemente colpita dall’aggressione israeliana del 2014, tanto che visitandola due anni dopo la sua distruzione si percepiva ancora l’accanimento feroce con cui Israele aveva voluto punire i suoi abitanti. Si percepiva, dalle ferite ancora aperte, la volontà di sterminio che aveva guidato da terra e dal cielo quello che viene definito, per ossequio verso Israele, l’esercito più morale del mondo. Ma nonostante i suoi visibili sforzi e l’uso abbondante di armi, anche vietate, contro gli abitanti di Khuza’a, l’Idf non era riuscito a eliminarli tutti e molti di loro, giovanissimi, con ferite nell’animo e a volte nel corpo che cicatrizzandosi hanno tolto loro la paura della morte, ieri sera erano là sul border, guardando disarmati – alla distanza imposta di 700 metri – il nemico armato al quale ripetono anche in questo modo la loro determinazione a resistere a costo della propria vita.
Compatti, giovani e meno giovani, uomini e donne, attrezzati con tende per dormire, per preparare il cibo, per offrire soccorso medico e per comunicare col mondo attraverso canali radio e internet, sono qui a migliaia ed hanno organizzato anche una danza a chiusura della giornata.
Chi scrive arriva sul posto scortata da persone che rendono sicuro ogni suo passo perché – anche se sembra quasi di stare in una festa di paese animata da un caos apparentemente allegro – sia gli amici che le autorità locali non vogliono che i pochissimi occidentali presenti nella Striscia corrano alcun rischio.
Ci sono alcuni fotoreporter, nel concentramento di Khuzaa’a, che scattano foto e girano video che mostreranno al mondo la realtà, attività necessaria a far capire chi sia l’aggredito e chi l’aggressore, ma quelli che incontriamo sono tutti locali e l’occidente, si sa, subisce il “fascino” della narrazione israeliana anche quando stride violentemente con i fatti reali. E’ probabilmente per questo che accolgono l’arrivo di una testimone occidentale con un’accoglienza ancor più calda di quella che questo popolo di solito riserva agli ospiti. Questa testimonianza non avrà la capacità di rompere il muro eretto col favore dei media main strem, ma sarà comunque qualcosa, in fondo questo è il senso della stampa realmente indipendente, cartacea o on line che sia e loro lo sanno molto bene.
La folla che ha risposto alla chiamata degli organizzatori è composta da un popolo variegato le cui differenze politiche non sono percepibili, perché militanti e simpatizzanti di ogni fazione sono tutti sotto l’unica bandiera palestinese mettendo in pratica, dal basso, quella riconciliazione necessaria e vincente che i vertici delle diverse formazioni politiche non sono ancora riusciti a realizzare.
Hanno raccolto un buon numero di pneumatici che bruceranno venerdì prossimo per coprirsi dietro una cortina di fumo che renderà più difficile ai cecchini mirare ai loro corpi e uccidere puntando al cuore e alla testa oppure invalidare mirando al bacino come hanno fatto con centinaia di manifestanti lo scorso venerdì.
Passiamo qui alcune ore, fino a notte, intervistando in modo formale e informale uomini e donne, giovani e adulti, che con l’aiuto dell’interprete arabo parlano con noi in piena libertà e tutte e tutti ripetono che la paura ha lasciato il posto alla determinazione a ottenere il rispetto della legalità internazionale, quella stessa che viene regolarmente e impropriamente citata a difesa di Israele il quale non l’ha mai rispettata.
Chi con indubbia competenza, chi ripetendo in modo ingenuo di aver diritto a tornare nella propria casa, tutti fanno riferimento al Diritto internazionale e alla Risoluzione Onu 194 che, a parole, garantisce il loro diritto regolarmente violato.
Qui nella Striscia di Gaza la maggioranza della popolazione infatti vive nei campi profughi allestiti dopo la Naqba, cioè la catastrofe che, nello stesso anno in cui veniva emanata la Dichiarazione universale dei diritti umani, vedeva il nascente Stato di Israele violarli a danno dei palestinesi cacciati a centinaia di migliaia dalle loro case.
Avanziamo il dubbio che questa grande iniziativa sia un po’ la ripetizione di tante altre manifestazioni finite nel sangue e chiediamo cosa ci sia di diverso questa volta, a parte la durata programmata della grande marcia che dovrebbe chiudersi il 15 maggio.
Generalmente i palestinesi, quando li si intervista su questi temi, parlano di speranza ma questa volta al termine speranza hanno sostituito un avverbio: “kalas” cioè “basta”, e con una determinazione che qualche media filo-israeliano sicuramente definirà fanatismo o addirittura fanatismo antisemita, ripetono che la morte non li spaventa più e che preferiscono morire che seguitare a vivere senza libertà e senza diritti. Questo è il messaggio che vogliono mandare al mondo e che sono sicuri di riuscire a far arrivare. Diciamo ai nostri interlocutori che il mondo dei media e delle istituzioni segue la narrazione israeliana e ripete che questa grande iniziativa è organizzata e gestita da Hamas. La risposta è comune, sia da parte di chi appartiene alle fila si Hamas che da parte di tutti gli altri, ed in sintesi la risposta è “siamo al di là delle divisioni politiche e vogliamo che il mondo riconosca i nostri diritti“.
Tra gli attivisti che intervistiamo c’è il giornalista free lance Walid Mahmoud, cittadino di Khuza’a, che ci rilascia una dichiarazione precisa e ci autorizza a pubblicarla , queste le sue parole tradotte dall’inglese:”Sì, la morte non ci spaventa, perché siamo persone che hanno perso molto negli ultimi anni e oggi in questo marzo non abbiamo nulla da perdere… negli ultimi anni l’occupazione israeliana ha commesso troppi crimini contro di noi … e ora non ci arrenderemo e continueremo a marciare fino a quando non vedremo azioni sul terreno, perché il troppo è troppo. Oltre 10 anni di assedio e tre aggressioni fanno di Gaza una realtà invivibile, e noi dobbiamo mantenere ciò che rimane da Gaza anche se ci costerà la vita. Vogliamo i nostri diritti come qualsiasi altra persona su questo pianeta, la decisione delle Nazioni Unite dice che i profughi palestinesi devono tornare nella loro terra occupata e noi questo vogliamo…. Sono fotoreporter e attivista freelance di Gaza e sto lavorando duramente per sensibilizzare il mondo su Gaza. Il mio obiettivo nella vita è di far capire alle persone che sostengono gli oppressori che sono dalla parte sbagliata e vorrei vedere il mondo svegliarsi e permettere ai palestinesi di avere giustizia.“
Mentre raccogliamo le nostre interviste, c’è chi ci porta il “qahwe” cioè il caffè palestinese al cardamomo, chi lo “shay” cioè il loro tè bollente alla salvia perché a quest’ora fa freddo, chi ci offre dolci o altro cibo, e nel caos di voci e musica ogni tanto si sente qualche colpo sordo, sono i soldati israeliani che sparano i tear gas il cui fumo si confonde con quello degli pneumatici bruciati.
Questa gente sa che venerdì prossimo Israele continuerà a offrire morte invece di accettare giustizia perché l’Onu non interverrà, ma loro resisteranno lo stesso e citano le parole di Arafat e di altri combattenti del mondo “preferiamo morire in piedi che vivere in ginocchio” e intanto ci invitano ad assistere alla danza tradizionale che balleranno tutti insieme centinaia di uomini di ogni età. Non si tratta della dabka, ma della dhiya e la differenza non è piccola cosa perché la dhiya ha un preciso significato e forse qualche antropologo israeliano lo sa e farebbe bene a farlo sapere anche al suo governo. La dhiya è un’antica danza araba di origine tribale che ha la funzione di sollevare gli animi, dare coraggio e creare entusiasmo collettivo prima di una battaglia. E’ insomma una danza di guerra che non porta alla resa.
Questo popolo, di fronte a un nemico tanto armato quanto spietato sta ballando a mani nude la dhiya. Questo significa che questo popolo non si arrenderà. Perché non ha più niente da perdere.
Israele ha solo due alternative: o sterminare ogni individuo di questo martoriato popolo, ma non ci riuscirà, o vivere con l’incubo che ci sarà sempre qualcuno a presentargli il conto dei suoi crimini.
Se l’Onu, ormai screditata proprio dalla sua accondiscendenza verso i crimini israeliani riuscisse a prendere le giuste misure per condurre Israele nell’ambito della legalità la dhiya verrebbe danzata per festeggiare la vittoria della giustizia e non per prepararsi all’ultima battaglia.
Noi siamo solo osservatori e testimoni, quindi non ci resta che osservare e comunicare ciò che abbiamo visto e ciò che succederà nei prossimi giorni sperando, come umani e non solo come comunicatori, che dopo 70 anni possa esserci la sterzata giusta per interrompere questa mattanza di vite e di diritti.
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