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L’Antigone di Sofocle e il “possibile” impossibile di Giuseppe Argirò

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Quando uno spettacolo lascia un’eco molto forte, l’idea di recensirlo nell’immediato appare sacrilega: sarebbe come mettersi a parlare del più e del meno dopo il primo bacio. L’Antigone di Sofocle, appuntamento della stagione del Teatro Arcobaleno di Roma, regia di Giuseppe Argirò, protagonista Jun Ichikawa, non è più in scena. Probabilmente la potrete rivedere solo fra alcuni mesi, non si sa bene dove. Che importa? Il critico narra echi e se l’eco è viva a giorni di distanza, se quel suono interiore è più definito, allora scrivere è giusto.

Nel Centro Stabile del Classico recentemente benedetto persino da Franco Cordelli, Argirò compie uno di quei suoi atti di hybris che forse lo rendono inviso agli dei quanto una lunga serie di eroi greci, ma ne fanno uno dei rari registi italiani in grado di portare contemporaneamente in un teatro la tragedia classica e il pubblico, anche giovane. In poco più di un’ora, quella che per secoli è stata la tragedia per eccellenza, più amata persino di Edipo re, prende una sua vita possibile sul palco. “Possibile”, è quest’aggettivo che distingue l’allestimento riuscito di una tragedia dai molti scempi che si fanno del classico.

Un passo indietro. Anzi molti. Ventidue anni fa un regista animava un laboratorio teatrale in un liceo romano. Una giovane ragazza italo-giapponese si era iscritta a quel laboratorio. La prima lezione verteva sul personaggio di Antigone. Quel regista era Giuseppe Argirò, quella ragazza Jun Ichikawa. Nelle atmosfere dello spettacolo si avverte la sacralità di un patto, quella promessa intercorsa tra un’allieva e il suo insegnante si riverbera nell’alleanza tacita stretta tra Antigone e il fratello Polinice. Nulla si replica, ma tutto si compie su questo palcoscenico, con la solennità dei giuramenti, la tragedia è agita, è “drama”, si attua come sacrificio, trasforma l’ordinario in sacro. Questa profondità cultuale è il primo suono che giunge con l’eco. La volontà del “possibile” è subito dichiarata dal regista con un’acuta idea di contaminatio che apre la tragedia. Argirò prende in prestito dalle Fenicie di Euripide il prologo, affidato a Maria Cristina Fioretti. In questo modo anche lo spettatore più lontano dal mito classico entra nella storia dei labdacidi attraverso le parole dei tragici e senza didascalie.

L’eco porta con sé l’immagine di Antigone, Jun – sposa, soldato, samurai –, il suo muoversi è liturgia poetica, ogni suo gesto è rito. Oriente e Occidente, kabuki e tragedia, katana e crocefisso, cerimonia del tè e divise, le forme si fondono in quello sforzo del teatro che tentando di comprendere il divino finisce per spiegare l’umano.

Jun Ichikawa condensa ascesi e carnalità nella purezza geometrica dei suoi movimenti, l’espressione del suo volto è il fuoco vestale in cui vive la fratellanza ardente, nei suoi occhi avvertiamo il senso di un dovere trascendente. Il suo corpo, in certi momenti come sospeso grazie alle luci di Giovanna Venzi, si trasfigura, diviene testimone cristico di una legge superiore, che sovrasta le regole imposte da Creonte, il tiranno, interpretato in tutta la sua ricchezza di sfumature e contraddizioni umane da Maurizio Palladino.

Tutti gli attori – la già citata Fioretti, anche nel ruolo di Euridice, Filippo Velardi che qui è Emone, Silvia Falabella, un’Ismene di grande personalità – contribuiscono con perfetta misura a dare vita alla verità dell’Antigone classica nel solco di una drammaturgia che ha saggiamente riassorbito i cori trasfondendoli nel tessuto degli altri personaggi e ha saputo, con esito imprevedibilmente positivo, avvicinare al pubblico la tragedia, facendo scivolare al suo interno parole che contrastano col tragico antico, ma a loro modo lo completano, come quelle di Jean Anouilh.

Sorprendente e felice è la scelta di chiedere a Carmen Di Marzo di interpretare il suo ruolo di guardia con una cadenza napoletana. Negli scambi con Creonte emerge in questo modo il grottesco, il soldato assume quasi i caratteri di un personaggio elisabettiano, e si crea un movimento che rafforza il ritmo del dramma.

Un paragrafo a parte merita il Tiresia di Renato Campese. Quando questo grande padre della scena arriva, occhiali da sole, fazzoletto al collo, stampella per reggersi, il mondo gli s’inchina. Il suo semplice “stare” è presenza che attiva processi emotivi, nel suo “dire” la parola fluisce naturale, la poesia diviene canto realista, verbo logico, e ci sembra che nessuno nella vita ci abbia parlato con l’autenticità di quel vecchio indovino cui Creonte, culmine dell’ironia tragica, dà dell’imbroglione.

Questi echi risuonano a qualche giorno dall’ultima replica dello spettacolo. Forse non è la messa in scena più ortodossa di una tragedia greca, eppure quest’allestimento “possibile” riesce un poco nell’ “impossibile” e, dentro la risonanza che ne resiste, sembra proprio che Antigone “giunga viva” fino a noi.


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