BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

No a riforme “Cosa nostra”

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Eravamo partiti con l’intenzione di Ridare lo scettro al principe, al popolo sovrano, agli elettori, togliendolo ai partiti che l’avevano usurpato. Perciò avevamo fatto e vinto i referendum 1991 e 1993 contro la proporzionale. E invece  stiamo ancora discutendo se la bozza d’intesa (?) Pd-Pdl-Udc sulla nuova legge elettorale possa favorire, per quel che può la sola legge elettorale, istituzioni governanti; o se invece prefuguri, come contestano i radicali, un modello “Cosa nostra”, che conserverebbe lo scettro ai partiti usurpatori, e forse gli consentirebbe anche di passarselo in corsa, di mano in mano, come il testimone. Il Pd era partito da due punti fermi: la leadership di Bersani votata da 3 milioni di iscritti, che ne fanno il candidato premier di qualsiasi coalizione imperniata sul Pd (leadership-premership); e il sistema elettorale francese di doppio turno in collegi uninominali, che, con lo sbarramento alto e la necessità di coalizzarsi per vincere, restituisce lo scettro al principe: cioè il diritto al popolo sovrano di scegliere tra i due poli quello da cui vuol essere governato e, nel collegio, il candidato da cui vuol essere rappresentato in parlamento.

Tutto chiaro come l’acqua. Perciò vien da piangere quando, risfogliando Materiali per la riforma elettorale a cura di Roberto Ruffilli, pubblicato da Arel-Mulino 25 anni fa, si riscopre che già a metà degli Anni ’80 personalità come Scoppola, Barbera, Giugni, Pasquino, Pontello, Lipari e Segni avevano formulato nella commissione Bozzi la proposta di togliere ai partiti e dare agli elettori, non più con le preferenze ma con elezioni primarie, la scelta dei candidati: sia nei collegi uninominali, sia nelle liste dei grandi collegi proporzionali dove sarebbe eletta l’altra metà dei candidati: i primi tre di ogni lista designati dai partiti, gli altri riciamati fra i migliori non eletti dei collegi uninominali (modello tedesco).  Insomma, se proprio non ci si voleva convertire  al doppio turno, almeno un sistema fifty-fiftyi che egualmente permettesse l’emergere di un partito o di una coalizione maggioritaria. In questi giorni, stiamo dunque rimestando una pentola dove gli ingredienti di una riforma maggioritaria o con effetti maggioritari erano già stati versati tutti. Per ridare lo scettro al principe, come dice Pasquino, e riconciliare paese e cittadini dopo l’usurpazione  partitocratica.

Immagino che l’on, Monti, impegnato allora e dopo fra i suoi amati studi universitari e l’Europa, non  abbia avuto otium sufficiente (rimpiangeva Spallanzani) per approfondire queste faccende, che nelle moderne automobili costituiscono il centro dell’alimentazione del motore, il “corpo farfallato”:  lasciato senza cure, provoca l’arresto della macchina, magari in piena notte. Ma il presidente sa che nella notte della finanza e dell’economia, che lui è stato chiamato da Napolitano a rischiarare, il suo lavoro sarebbe meno difficile se avesse alle spalle non solo un grande capo dello Stato ma uno Stato, un motore efficiente. Che non è fatto mai di sola economia ma sempre in primo luogo di politica. Donde le parole in libertà o equivoci sullo spread fra tecnici  premiati dai sondaggi e politici sfiduciati dai cittadini. Il problema è aiutarsi a stare insieme, per evitare che tutti prendano cazzotti dai cittadini, come dice Bersani. Ma proprio perché Bersani lo sa, deve fare della legge elettorale la nostra linea del Piave: non la frontiera mobile dove si può avanzare o indietreggiare secondo le “opportunità”, che sarebbero “opportunismi”.
 
Come ogni legge, anche quella elettorale deve disporre per l’avvenire, non per domani mattina. Se no, si chiama Porcellum. E l’hanno già fatta i porci, quand’erano padroni della Fattoria. Ora bisogna fare una legge che sfidi i decenni, come tutte quelle delle democrazie occidentali. Ma dalla bozza d’intesa non ci siamo. A cominciare dal numero dei deputati, del tutto gratuito, visto che 500 possono essere ancora troppi oppure troppo pochi: dipende dalle materie che s’intende riservare alla legislazione, se ancora 120 mila, come in Italia, o 20-30 mila, come in Francia o Germania. Si potrebbe continuare, per esempio coi nuovi compiti del Senato (stiamo parlando di norme costituzionali e non di sola legge ordinaria, perché quella elettorale procede su entrambi i binari, come sapevano i padri fondatori dell’Italia democratica, della Francia gollista, della Germania adenaueriana, della Spagna postfranchista). Si potrebbe continuare, ancora, con la navetta Camera-Senato, abolita nella retorica (superamento del bicameralismo perfetto) e mantenuta di fatto, col previsto richiamo che un ramo del parlamento potrebbe fare di una legge votata dall’altro ramo; mentre si trascura l’essenziale, e cioè il riordino dei poteri locali e delle autonomie (su cui dovrebbe vigilare il nuovo Senato) che sono venuti esplodendo in anarchia. Cosa che rende urgentissimo non decentrare ancora, ma restaurare una centralità democratica: più Stato regionale e meno regionalismo senza Stato.

Tutto questo, e assai altro, è a monte e non a valle della riforma elettorale, la quale fa tutt’uno con la costituzione. La Costituzione del 1948 e il sistema proporzionale nacquero rispecchiandosi  l’una nell’altro. Se le riforme costituzionali a cui si pensa mirano a togliere ai partiti quel che essi hanno tolto allo Stato e alla società trasformando la proporzionale in partitocrazia,  non  si può nemmeno immaginare una legge elettorale che, fuggendo sull’altro  binario in direzione opposta, rischia il disastroso scontro fra i due treni.  A me non parrebbe ragionevole l’affermazione che il Corriere della sera ha attribuito al professor Vassallo, che non l’ha espressa: “Indicazione del premier e premio forte a chi vince, ed è fatta”. Detta così, si potrebbe replicare: ma il Porcellum non ha l’indicazione del premier e il premio forte? E non ce l’ha fatta. Mentre le democrazie europee non hanno né l’una né l’altro, eppure ce la fanno (o quasi). Il Pd è partito dalla chiara posizione di chi non vuole presidenzialismi nemmeno indiretti. Il premier è premier non perché “indicato” ma perché leader del partito che vince e dell’eventuale coalizione che come tale lo riconosce. Se la coalizione deve riparare per un guasto il suo “corpo farfallato”, il premier (Thatcher, Koll) può anche cambiare. Non per questo si rinuncerebbe al maggioritario bipolare; né il Pd ha mai rinunciato alla “vocazione maggioritaria” con la quale è nato. Perciò si tratta di fare una legge elettorale che non castri quella vocazione, né al centrodestra né al centrosinistra, ma che limiti al solo “diritto di tribuna” l’accesso al parlamento dei piccoli partiti, e affermi almeno il principio, da tradurre poi nei regolamenti parlamentari, che nessun gruppo può nascere attraverso scissioni, essendo riconosciuti (e finanziati) solo quelli costituiti dalla volontà degli elettori. Serve una cura da cavallo nel paese del trasformismo. Così come a stabilizzare il governo non servono né il premier designato né il premio di 50 o 100 deputati; basta una norma parlamentare, come la “sfiducia costruttiva”. Quante volte l’amico Maccanico ha ripetuto che il nostro problema è quello del governo “in” parlamento e non dei maggiori poteri del premier? 

Da questa linea non ci si può ritirare. Se dovessero chiedercelo in nome della tregua, allora sarà bene moderare il passo anche sugli altri scacchieri. Non possiamo, per l’abituale patriottismo, perdere elettori che potrebbero invece esser chiamati a risolvere nelle urne il problema della maggioranza, della governabilità e di una legge elettorale  coerente con le riforme della Costituzione.


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