L’intreccio fra mala accoglienza e agromafie

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di Marco Omizzolo

Questa lunga inchiesta sul mondo delle agromafie e dello sfruttamento lavorativo si conclude indagandone una dimensione forse nuova, certamente ancora poco analizzata.
È una dimensione espressione dei continui processi di smantellamento dei diritti del lavoro avvenuti nel corso degli ultimi trentanni, della sottodeterminazione del ruolo dello stato sociale, dello smantellamento delle strutture dedicate alla difesa dei lavoratori e delle lavoratrici migranti e italiani (sindacati, tribunali del lavoro, ispettorati, uffici di collocamento…) e dell’affermarsi di forme di criminalità, organizzata o meno, sempre più pervasive, determinate, evolute, capaci non solo di ritagliarsi nuovi spazi nell’economia formale ma anche di conquistare settori regolati dallo Stato facendoli diventare, troppo spesso e con troppa facilità, “cosa loro”. Non basta una legge repressiva, per quanto importante, come la nuova legge contro i caporali (legge 199/2016), se non si comprende la genesi del fenomeno e la sua natura liquida, trasversale e intimamente criminale.
Nel corso dell’ultimo anno, si è assistito ad una saldatura inquietante tra la cattiva prima accoglienza, con riferimento in particolare ai Centri di Accoglienza Straordinaria (Cas) aperti dalle prefetture, e una parte del sistema agromafioso relativo a forme varie di caporalato e grave sfruttamento lavorativo.
È evidente che alcune cooperative impegnate anche nella prima accoglienza, contro un diffuso pregiudizio, svolgono un lavoro egregio, manifestando una passione che è un patrimonio importante per questo Paese al quale è necessario associare una crescente professionalizzazione delle loro attività. Altre, invece, agiscono approfittando della persistente inefficienza delle istituzioni, di bandi pubblici a volte scritti male, di controlli poco attenti, di una comprensione parziale, se non inadeguata, del fenomeno migratorio, della dinamica dello sfruttamento lavorativo e del caporalato.
In molte aree del Paese, diverse prefetture hanno autorizzato l’apertura di Cas in aree periferiche, spesso rurali, nascoste agli occhi di molti, segregandoli in territori in mano alle mafie, a caporali o, comunque, caratterizzate da un sistema organizzato di sfruttamento lavorativo noto e abbondantemente denunciato.
Accade ancora una volta in provincia di Latina. Il Pontino è un territorio che esprime sul piano mafioso un’organizzazione sovraclanica (una sorta di direttorio informale espressione di un network mafioso di primissimo livello ma leggero nella sua struttura e completamente relazionale) che è sintesi delle varie mafie presenti (mafie storiche come quella siciliana, la ‘Ndrangheta, i Casalesi e la camorra, mafie straniere o ibride come il clan Ciarelli-Di Silvio e quelle direttamente impiegate nella tratta degli esseri umani e nello sfruttamento lavorativo come le mafie rumene e quella italo-punjabi) con ambienti politici (si pensi al caso dell’onorevole Maietta di Fratelli d’Italia, tesoriere del partito della Meloni, invischiato in inchieste giudiziarie per i suoi rapporti con Cha Cha Di Silvio, esponente di vertice del relativo clan, e per i suoi affari neri quando era presidente del Latina Calcio) e imprenditoriali vari (il Latina calcio dell’onorevole Maietta vedeva la presenza al suo interno di imprenditori apicali, importanti aziende agricole pontine, il Mercato Ortofrutticolo di Fondi, la gestione dei porti e in particolare quello di Gaeta, la vivaistica e non solo).
Questa organizzazione criminale, con tutte le sue varianti, riesce a cogliere le potenzialità di ogni nuovo settore economico governandone l’evoluzione. In questa provincia e, in particolare, a borgo Sabotino, a pochi chilometri dal capoluogo, circa 90 rifugiati ospitati in un Cas gestito dal consorzio Eriches 29, quello di Salvatore Buzzi, oggi guidato da amministratori giudiziari nominati dal Tribunale di Roma, risultano spesso sfruttati nelle campagne circostanti.
Ognuno di loro percepisce circa 20 euro al giorno per raccogliere gli ortaggi coltivati nella zona. Se ne incontrano molti anche nel Sud Pontino, fermi ad aspettare un pulman o in bicicletta mentre tornano dai campi insieme ai braccianti indiani, diretti nei centri di prima accoglienza locali. Ibrahim è un ospite del centro Eriches 29 e lo incontriamo mentre torna dal lavoro in campagna. È stanco ma soddisfatto perché dice che rispetto all’oblio deprimente che vive ogni giorno almeno: “Riesco a guadagnare qualcosa e non dormo tutto il giorno”.
Ha poco più di venti anni, un sorriso molto dolce, un corpo forte e occhi pieni di vita. Afferma, con un italiano stentato: “Ho fatto un lungo viaggio. A volte a piedi, altre volte ho pagato alcuni trafficanti che mi hanno portato fino in Libia. Lì ho lavorato, poi con un barcone sono venuto in Italia e mi hanno mandato a Latina. Lavoro in campagna per guadagnare qualcosa. Senza soldi non si vive e io devo mandare soldi a casa ed ho trovato questo lavoro”.
Ha lavorato anche d’estate nella raccolta dei cocomeri a volte per quattordici ore al giorno per 20 euro scarsi. Ovviamente non ha alcun contratto e non sono rispettate le norme sulla sicurezza sul lavoro. Viene reclutato da “un amico”. Racconta: “Lui mi chiama e mi dice se devo lavorare per raccogliere o fare altro in campagna”. La storia di Ibrahim e di molti altri ragazzi ospiti del Cas di Latina assume i contorni tragici della truffa nei riguardi dei più deboli. Sostiene infatti che per diverse settimane non è arrivata l’acqua nel centro, i pocket money vengono dati in ritardo e, inoltre, fatto particolarmente grave, sono gli stessi ospiti a pagare 10 euro ognuno per partecipare ai corsi di italiano. Una truffa nella truffa.
Un Cas pagato con soldi pubblici che diventa luogo di reclutamento per i caporali del Pontino di giovani ragazzi africani da impiegare come manodopera straordinaria nelle campagne locali. I ragazzi africani hanno presentato un dettagliato esposto in Questura. Hanno descritto i fatti a partire dall’assenza dei riscaldamenti e della lavatrice a cui si aggiungono le attività di reclutamenti di alcuni caporali e di anziani italiani che fanno loro avance sessuali nei bar della zona offrendogli in cambio di 10 o 20 euro.
Il consorzio Eriches 29, già coinvolto nel sistema Mafia Capitale, tace, nonostante le inchieste pubblicate anche dall’Espresso e da Avvenire. Quest’ultimo ha ricordato che la Eriches 29, nel novembre 2016, ha ottenuto il “Rating di legalità” dall’Autorità generale della concorrenza e del mercato. Eppure gli ospiti finiscono vittime, ancora una volta, di sfruttatori, caporali e cattiva accoglienza.
La ricerca dei richiedenti asilo pontini ha una sua spiegazione nel tentativo di alcuni padroni italiani di trovare nuova manodopera bracciantile da impiegare nelle campagne allo scopo di sostituire, almeno in parte, i braccianti indiani perché considerati, dopo lo sciopero del 18 aprile del 2016, dei ribelli. I primi sono meno consapevoli, oggi, dei braccianti indiani e quindi più ricattabili.
La saldatura tra MalaAccoglienza e caporalato può diventare la punta più avanzata delle agromafie di oggi e di domani. Una saldatura che porta a definire una nuova divisione internazionale del lavoro, con una netta distinzione tra chi è ricco e forte e chi, invece, povero e fragile. Ma non è un fenomeno solo Pontino.
Il 5 maggio del 2017, i carabinieri di Cosenza intervengono con successo contro il caporalato e lo sfruttamento dei migranti a Camigliatello Silano, in Sila. Secondo la ricostruzione di quanto accaduto, i gestori di alcuni Cas incassavano i soldi stanziati dal Governo per l’accoglienza che si sommavano a quelli delle aziende agricole alle quali fornivano manodopera migrante da impiegare nelle diverse fasi della loro produzione. Complessivamente sono state individuate 14 persone accusate a vario titolo di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, abuso d’ufficio e tentata truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche.
I rifugiati non solo venivano malamente gestiti ma anche prelevati da due Centri di Accoglienza Straordinaria e portati a lavorare nei campi di patate e fragole dell’altopiano della Sila cosentina o impiegati come pastori per badare agli animali da pascolo in cambio di una retribuzione a nero che variava dai 15 ai 20 euro per dieci ore di lavoro al giorno. Chi tra questi ultimi non riusciva a reggere i ritmi di lavoro imposti veniva brutalmente aggredito e umiliato davanti a tutti. Ad altri, invece, anche solo se tardavano nelle loro attività quotidiane, veniva dimezzata la paga concordata. I responsabili del Cas dovranno anche rispondere della manipolazione dei fogli presenza dei rifugiati, che venivano dati come presenti nel tentativo di ottenere i finanziamenti previsti dalla legge a sostegno della struttura di accoglienza. Secondo il procuratore aggiunto di Cosenza, Marisa Manzini, ora si deve “riflettere sul ruolo che devono avere i centri di accoglienza e su queste persone che sfruttano i lavoratori, al di là di chi sia la persona offesa”.
Un altro caso accertato e denunciato, ad esempio da FilieraSporca, è accaduto nel Cara (Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo) di Mineo, in Sicilia, espressione di poteri politici riconducibili all’ex  ministro dell’Interno Angelino Alfano. Molti uomini ospiti del centro venivano infatti presi in carico da caporali che li portavano nei campi circostanti a lavorare come schiavi soprattutto nella raccolta dei pomodori.
Un altro caso riguarda il Cara di Isola Capo Rizzuto, vicino Crotone. Uno dei centri più grandi d’Europa, già al vertice delle cronache giudiziarie per la sua pessima gestione. Molti ragazzi ospitati, infatti, quando uscivano dal perimetro del centro, peraltro presidiato militarmente, diventavano facile preda di caporali e sfruttatori che li impiegavano nell’industria dell’accattonaggio o in lavori particolarmente gravosi nelle campagne circostanti.
Isola Capo Rizzuto è luogo in cui la ‘Ndrangheta, purtroppo, comanda. Nel mese di novembre del 2017 la sua amministrazione è stata sciolta per mafia. È anche uno dei territori più esposti al fenomeno dello sfruttamento lavorativo e al caporalato. Proprio il suo Cara è esempio della capacità della ‘Ndrangheta di penetrare e condizionare anche questo settore. Condizionamento emerso nel maggio del 2017 quando 68 persone sono state destinatarie di un provvedimento di fermo, emesso dalla Procura di Catanzaro, per l’accusa di associazione di tipo mafioso, estorsione, porto e detenzione illegale di armi, intestazione fittizia di beni, malversazione ai danni dello stato, truffa aggravata, frode in pubbliche forniture e altri reati di natura fiscale, tutti aggravati dalla modalità mafiose. I provvedimenti, disposti dalla Direzione Distrettuale Antimafia guidata dal procuratore capo Nicola Gratteri, hanno assestato un duro colpo alla cosca di ‘Ndrangheta della famiglia Arena.
Dalle indagini, stando alla ricostruzione fornita dall’autorità giudiziaria, oltre alle tradizionali attività criminali legate alle estorsioni esercitate sul catanzarese e crotonese, la cosca riusciva a controllare la gestione del centro di accoglienza di Isola Capo Rizzuto, gestito dalla Misericordia. Il responsabile di quest’ultima, divenuta una holding dell’accoglienza, è Leonardo Sacco, fermato insieme al parroco dello stesso paese, don Edoardo Scordio. I due sono accusati di associazione mafiosa, oltre a vari reati finanziari e di malversazione, reati aggravati dalle finalità mafiose.
Secondo gli inquirenti, la cosca Arena, tramite il responsabile della “Fraternita di Misericordia”, Leonardo Sacco, si aggiudicava gli appalti indetti dalla Prefettura di Crotone per le forniture dei servizi di ristorazione al centro di accoglienza di Isola Capo Rizzuto e di Lampedusa. Appalti che venivano affidati a imprese appositamente costituite dagli Arena e da altre famiglie di ‘Ndrangheta per spartirsi i fondi destinati all’accoglienza dei migranti.
Un assalto alla diligenza. Molti di loro, infatti, hanno raccontato di “fare la giornata” salendo sul pulmino del caporale per lavorare sotto padrone in qualche azienda agricola locale. Impiegati nella raccolta delle olive, degli ortaggi e della frutta, piegano la schiena tutto il giorno in cambio di pochi spicci, sotto l’occhio attento della ‘ndrangheta e a quello distratto dello Stato. Ovviamente non mancano altri casi ed episodi inquientanti in altre aree del Paese.
Termina così questo lungo viaggio nelle agromafie che ha voluto, sia pure in sintesi, coglierne alcuni aspetti prevalenti dentro una cornice fondamentale che è quella di uno Stato che ha derogato il lavoro alle regole informali del mercato, mortificando spesso diritti dei lavoratori, immaginando che lo sviluppo potesse avvenire lasciando alle forze del capitale, qualunque capitale, la libertà di agire, trasformando i lavoratori, i migranti, i disoccupati, in merce di scambio, braccia buone per i campi, schiene da piegare.
Le agromafie ne hanno tratto forza e vigore. Abbiamo provato a mettere a fuoco le contraddizioni del sistema di accoglienza, del biologico e del Made in Italy, insieme alle lentezze del sistema giudiziario italiano, al dramma di migliaia di esseri umani condannati a lavorare come schiavi per il profitto di alcune aziende e, in alcuni casi, come per i lavoratori indiani pontini, addirittura a doparsi, il dramma delle donne vittime di tratta, caporalato e di ricatti sessuali continui, i processi e le mobilitazioni in corso, patrimonio straordinario che i lavoratori e lavoratrici soprattutto migranti mettono a disposizione di questo Paese sul quale poco si riflette.
Lo abbiamo fatto seguendo le riflessioni di alcuni studi importanti come il dossier Agromafie dell’Eurispes e Agromafie e caporalato dell’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai Cgil, i dossier di In Migrazione, di Medici Senza Frontiere, Amnesty, Medu e le tesi di molti ricercatori e giornalisti impegnati da anni sul tema. Su tutti merita di essere ricordato, per competenza e stile, Alessandro Leogrande, che da pochissimo ci ha lasciati. Un giornalista e intellettuale che prima di tutti ha compreso l’involuzione delle nostre campagne e la forza economica e criminale delle nuove agromafie.
Abbiamo indagato il ruolo della Grande Distribuzione Organizzata e dei Mercati ortofrutticoli di Fondi, Milano e Ragusa in particolare. Ne è venuto fuori un quadro che racconta un pezzo di questo Paese. Un Paese che merita un altro futuro realizzabile solo liberando il lavoro dal peso del ricatto dei padroni e dei padrini.

(15 fine)

Da mafie


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