BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

“Mi chiamo Ilaria Alpi, sono morta il 20 marzo 1994” #NoiNonArchiviamo

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“… Vi conosco tutti, uno per uno, conosco i vostri volti, ogni dettaglio lo ricostruisco, ho un’infinita pazienza e il tempo mio si chiama “sempre” ed è adesso che si svolge e vi travolge… Mi chiamo Ilaria Alpi, sono morta il 20 marzo 1994”
Parole che concludono un monologo di Aldo Nove dedicato a Ilaria Alpi nel ventennale della sua morte. E’ la Verità/Ilaria che parla. Parole forti, severe. Arrivino, queste parole, a chi oggi può, deve svelare:
chi ha ucciso Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, gli esecutori;
chi ha organizzato l’esecuzione, ha pagato per uccidere, i mandanti;
chi per 24 anni ha mentito, ha coperto responsabilità, ha fatto carte false, i depistatori.

Arrivino a chi nel mese di aprile prossimo dovrà pronunciarsi sulla richiesta di archiviazione dell’inchiesta, presentata dalla Procura di Roma (a firma del Sostituto Procuratore della Repubblica Dott.ssa Elisabetta Ceniccola con il visto del Procuratore Capo Dottor Giuseppe Pignatone).
Una richiesta, quella della Procura di Roma, incomprensibile e grave. A Perugia si è conclusa la revisione del processo nei confronti di Hashi Omar Hassan  condannato a 26 anni di carcere per concorso nell’assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin il 20 marzo 1994 a Mogadiscio.

La testimonianza chiave di Ahmed Ali Rage detto Jelle è falsa.  Le motivazioni  della sentenza di Perugia (12 gennaio 2017) si concludono con due punti importanti:
“…deve revocarsi la sentenza emessa dalla Corte  d’appello di Roma ….nei confronti di Hashi Omar Hassan, con conseguente assoluzione del predetto reato ascrittogli per non aver commesso il fatto.”
“…indipendentemente da chi fosse stato l’effettivo ‘suggeritore’ della versione dei fatti da fornire alla polizia …il soggetto Ahmed Alì Rage detto Jelle potrebbe essere stato coinvolto in un’attività di depistaggio di ampia portata…

Attività di depistaggio che ben possono essere avvalorate dalle modalità della ‘fuga’ del teste e dalle sue mancate concrete ricerche….”

Dunque un cittadino somalo è stato in carcere per quasi 17 anni ed era innocente. L’errore giudiziario “perseverante” in tutti questi anni viaggia insieme al fatto che c’è chi ha depistato, costruito carte e piste false.
Era già scritto a chiare lettere nella sentenza di assoluzione di primo grado di Hashi indicato come vero e proprio “capro espiatorio” insieme alla individuazione del movente del duplice delitto.
E anche prima nelle dichiarazioni di Ettore Gallo, esimio presidente della commissione governativa incaricata di indagare sulle vicende somale legate alla presenza italiana durante la missione internazionale “restore hope” (relazione finale gennaio 1998) e nel libro “l’Esecuzione” (Luciana e Giorgio Alpi, Mariangela Gritta Grainer, Maurizio Torrealta – Kaos edizioni –gennaio 1999). Esplicite sul movente tutte le sentenze.Da subito però si tenta di accreditare la tesi dell’incidentalità: un attentato dei fondamentalisti islamici, una rappresaglia contro i militari italiani, un tentativo di sequestro o un tentativo di rapina finiti male.

Ma fu un’esecuzione: è confermato da quanto testimoniato da chi era a Mogadiscio quel giorno come ad esempio: “……L’azione ha l’aspetto di un’esecuzione mafiosa. Nessun tentativo di sequestro o di rapina. ….La dinamica dell’omicidio è del tutto anomala per la Somalia e fa pensare a un’esecuzione premeditata e ben organizzata……” (dalla nota inviata al dottor De Gasperis in data 27 maggio 1994 da Giovanni Porzio che era a Mogadiscio in quei giorni insieme a Gabriella Simoni) “…allora, non è stata una rapina…è stato un agguato bello e buono premeditato e organizzato….si vede che sono andati dove non dovevano andare…”  (dice lo stesso Giancarlo Marocchino intervistato da Vittorio Lenzi – TVSvizzera subito dopo l’agguato mortale) “…..Si sa che l’auto modello pick up di Ilaria …ad un certo punto è stata affiancata da un’auto  con a bordo sei uomini armati …ha tagliato la strada al pick up e due di essi hanno sparato a bruciapelo attraverso il parabrezza. Si sa che non hanno rubato niente, è stata un’esecuzione in piena regola….. (scrive Marina Rini nella cronaca di quella giornata inviata a Massimo Loche  il 28 marzo 1994, e acquisita dalla commissione durante la perquisizione e sequestro compiuto in RAI).

E’ quanto è venuto confermandosi, in tutti questi anni, dalle inchieste giornalistiche, dalle commissioni parlamentari e governative che se ne sono occupate, anche dalle sentenze della magistratura che non hanno individuato i responsabili ma il movente sì. La sentenza della Procura di Roma del 24 novembre 2000, nelle sue motivazioni, demolisce tutte le ipotesi che erano state avanzate o costruite per sostenere la casualità del duplice assassinio. Indica un solo movente di quella che definisce “un’esecuzione premeditata e organizzata”: “…. E che questi scopi siano da individuarsi nella eliminazione e definitiva tacitazione della Alpi e di chi collaborava professionalmente con la giornalista perché divenuta costei estremamente “scomoda” per qualcuno …..

 In ordine alla valutazione delle circostanze del reato e alla determinazione della pena, va osservato (scrivono i magistrati):
1) si è trattato di un duplice omicidio volontario premeditato, accuratamente organizzato con largo impiego di uomini …ed eseguito con freddezza, ferocia, professionalità omicida;
2) i motivi a delinquere dei mandanti ed esecutori sono stati, come dimostrato, di natura ignobile e criminale, essendo stato il duplice omicidio perpetrato al fine di occultare attività illecite; …”

E così anche le motivazioni con cui il gip dottor Emanuele Cersosimo nel dicembre 2007 respinge la richiesta di archiviazione degli atti del procedimento penale presentata dal pubblico ministero dottor Franco Jonta,  della procura di Roma.
“……la ricostruzione della vicenda più probabile e ragionevole appare essere quella dell’omicidio su commissione, assassinio posto in essere per impedire che le notizie raccolte dalla Alpi e dal Hrovatin in ordine ai traffici di armi e di rifiuti tossici avvenuti tra l’Italia e la Somalia venissero portate a conoscenza dell’opinione pubblica italiana…..”

Il gip dispone che il pm proceda alla riapertura delle indagini partendo dall’acquisire e analizzare tutto il lavoro della commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin a partire dalle tre relazioni finali (2004-2006). La Procura di Roma invece di dare impulso all’inchiesta e finalmente rispondere a tutti i nodi che anche questa sentenza di Perugia segnala a partire da quel tragico 20 marzo 1994 chiede ancora una volta l’archiviazione con motivazioni veramente ”sorprendenti”.

Luciana Alpi, tramite i suoi legali, ha fatto opposizione netta respingendo l’affermazione “…che tutti i reati ipotizzabili nella sentenza di Perugia sono ‘estinti’ per prescrizione”. E che il reato di depistaggio, introdotto dalla legge del 2016 n.133 “…non può certo trovare applicazione per fatti antecedenti la sua introduzione.”

Il depistaggio è legato a un reato gravissimo: duplice omicidio premeditato per il quale non esiste prescrizione. Il depistaggio, trapela nella sentenza di Perugia, potrebbe aver accompagnato l’inchiesta, non aver riguardato solo alcuni episodi relativi alla condanna di Hashi Omar Hassan, e forse ancora in atto. Si legge inoltre, nella parte conclusiva della richiesta di archiviazione, che l’ipotesi che il duplice omicidio sia legato al lavoro svolto da Ilaria Alpi su “…qualcuno dei traffici illeciti fiorenti in quell’epoca in Somalia dilaniata dalla guerra …resta un’ipotesi dato che la perizia balistica, che è l’unico dato oggettivo che avrebbe potuto convalidarla, ha escluso che la Alpi sia stata uccisa da un colpo di pistola sparato da vicino ed esclude  quindi si sia trattato di un’esecuzione decisa in precedenza)….”

A quale perizia si riferisce la Procura di Roma? Sappiamo bene che anche sulle perizie c’è molto da approfondire a partire dalla mancata autopsia.

Il 22 marzo 1994 al cimitero Flaminio, dopo un esame esterno sul corpo di Ilaria, il dottor Giulio Sacchetti, perito medico scrive: “…trattasi di ferita penetrante al capo da colpo d’arma da fuoco a proiettile unico esploso a contatto con il capo… mezzo adoperato pistola, arma corta…….”

Il 16 gennaio 1995 il perito balistico dottor Martino Farneti, conclude la sua perizia affermando che ad uccidere Ilaria potrebbe essere stato un colpo di Kalashnicov sparato a distanza. Le due perizie, quella medica e quella balistica, sono in netto contrasto ma il dottor De Gasperis (primo titolare dell’inchiesta) non dispone l’autopsia nemmeno in quel momento.

Continua da qui un vero e proprio balletto delle perizie. Hanno sparato da lontano hanno sparato da vicino; sono stati due proiettili distinti, o un proiettile unico a colpire prima Miran e poi Ilaria, passando attraverso il sedile, colpendo prima una parte metallica dell’interno della macchina!
La perizia più completa (medico-legale e chimico-balistica) viene consegnata il 31 gennaio 1998, dopo l’arresto di Hashi Omar Assan. E’ stata eseguita dai superperiti incaricati dal dottor Pititto (del pool fanno parte periti nominati dalla Procura e dalla famiglia Alpi). Pititto è il secondo magistrato a occuparsi dell’inchiesta dalla quale viene inspiegabilmente sollevato, come vedremo, sei mesi prima (estate 1997). A sostituirlo sarà il dottor  Franco Jonta.

In tale documento si afferma che “..il colpo mortale è stato sparato (alla nuca zona parietale sinistra, dall’alto verso il basso) a distanza ravvicinata e che l’aggressore, in piedi sulla strada, sparò aprendo la portiera posteriore sinistra o dal finestrino”.

Miran Hrovatin, va ricordato, fu colpito da un analogo colpo alla nuca a destra: “… un colpo esploso a distanza teoricamente maggiore di una quarantina di centimetri circa ma in realtà variabile in più o in meno a seconda del tipo di arma e di altri fattori occasionali …colpisce la zona parietale destra …”, si legge nelle conclusioni della parziale autopsia svolta dal dottor Fulvio Costantinides.
E’ noto che il corpo di Miran Hrovatin è stato cremato: nulla è stato possibile accertare ulteriormente.

Una rapida sintesi della tragica storia per evidenziare alcuni altri nodi.

Il 20 marzo 1994 è domenica. A casa Alpi verso le tre del pomeriggio arriva una telefonata dalla redazione del Tg3. A rispondere è Luciana, la mamma di Ilaria. «Ilaria è morta…» le dicono. La notizia riportata dall’ANSA non proviene dalle autorità italiane (esercito, intelligence, diplomatici …cooperanti, presenti in Somalia nella missione internazionale “restore hope”) o dall’UNOSOM, ma da Giancarlo Marocchino, l’imprenditore italiano che si recherà per primo sul luogo dell’agguato (o che potrebbe essere già stato lì) e che avrà un ruolo chiave e ambiguo in questa tragica storia.

Nessuno attiva un’indagine, non vengono sequestrate le armi dell’autista di Ilaria né della scorta, non vengono interrogati i testimoni che sarà possibile identificare (anche a distanza di anni) ed interrogare, grazie al filmato dell’ABC girato immediatamente dopo il delitto e recuperato dalla commissione bicamerale d’inchiesta sulla cooperazione (1994/1996) che con una piccola delegazione si recò a Mogadiscio e nello Yemen interrogando testimoni oculari importanti.

In tutta questa storia assumono un particolare rilievo il ruolo e le informative dei servizi di intelligence (SISMI e Sisde) e della Digos di Roma e di Udine, in parte già note nel corso del primo processo contro Hashi Omar Assan. In alcune di queste informative si leggono nomi di possibili esecutori e mandanti e anche si riferisce di una riunione che si sarebbe tenuta a Mogadiscio il 15 di marzo 1994 presso la residenza di Ali Mahdi in cui, si decide il duplice assassinio, il luogo, le modalità e la sua organizzazione. Diverse testimonianze e documenti lo confermano.

Il 15 marzo Giancarlo Marocchino, durante una cena a casa sua, informa i presenti (giornalisti, militari diplomatici ….) di un possibile attentato in preparazione a giornalisti, invitando i presenti a lasciare Mogadiscio (cosa che hanno fatto). Il giorno successivo c’è una riunione organizzata dall’intelligence e dal comando dell’esercito italiano che conferma l’allarme. Ilaria nel frattempo è “bloccata” a Bosaso dove ha subito minacce di morte ed è  “trattenuta” per breve tempo da esponenti di clan locali. Non è a conoscenza dell’allarme e quando arriva quella domenica a Mogadiscio la trappola è organizzata. E doveva essere molto importante la telefonata che la porta a recarsi all’hotel Amana perché Ilaria era ben consapevole della pericolosità della situazione a Mogadiscio specie nel passare la linea verde, da una parte all’altra della città (zona Aidid zona Ali Mahdi): “nessuno senza un motivo particolarmente valido passa da una zona all’altra; qualunque spostamento deve essere accuratamente organizzato” è un appunto di Ilaria che conferma che quel giorno qualcuno le tese una trappola. E doveva essere davvero molto importante se in poco più di un anno si è recata ben sette volte in Somalia (la prima volta: 20.12.1992/10.1.1993)

A partire da quella tragica domenica ci sono tante cose che non sono state chiarite e che girano attorno ad un interrogativo ancora senza risposta: perché si è voluto fin dall’inizio nascondere che si è trattato di una esecuzione con movente esecutori e mandanti? E poi l’omissione di soccorso, la sparizione dei block notes e di alcune cassette videoregistrate, la violazione dei sigilli dei bagagli, la mancata autopsia, la costruzione “persistente” della tesi della casualità…sempre…

La sentenza del tribunale di Perugia ci ha detto che Hashi è innocente, è stato un capro espiatorio costruito attraverso un’abile attività di depistaggi “di ampia portata”. È probabile che questa attività depistante abbia avuto un picco nel 1997 per poi proseguire nel tempo. Ecco alcuni evidenti passaggi:

Nell’estate del 1997 proprio mentre stanno per arrivare dalla Somalia due testimoni oculari (autista e scorta) viene tolta l’inchiesta al magistrato Giuseppe Pititto che aveva dato un impulso al lavoro di indagine a partire dalla dolorosa autopsia sul corpo riesumato di Ilaria. Perché il procuratore Vecchione cambia magistrato incaricando il dottor Jonta (che tra l’altro aveva un fascicolo parallelo mentre l’indagine era ancora di De Gasperis) è un’altra bella domanda senza risposta.

Contemporaneamente esplode il caso delle presunte violenze di militari italiani nei confronti di cittadini somali e viene reso pubblico il memoriale del maresciallo Francesco Aloi che sostiene di aver conosciuto e frequentato Ilaria quando operava in Somalia con informazioni a dir poco improbabili. Si scatena un “rumore” mediatico fortissimo, il governo nomina una commissione di cinque persone presieduta da Ettore Gallo.

Sempre contemporaneamente spunta un nuovo testimone oculare: Ahmed Ali Rage detto Jelle che “indica” all’ambasciatore Giuseppe Cassini uno dei presunti assassini del commando di fuoco: Hashi Omar Hassan!

La procura di Roma opera con grande velocità, in questi giorni. Il 6 di agosto Cassini viene ascoltato dal procuratore capo dottor Salvatore Vecchione.

Nel mese di ottobre Ahmed Ali Rage detto Jelle arriva in Italia e viene ascoltato dalla polizia e poi dal dottor Jonta : fa il nome di un componente del commando, Hashi Omar Hassan, un racconto molto impreciso del 20 marzo; sostiene che nessuno si è avvicinato alla macchina ma che hanno sparato da lontano. (Stupisce che il dottor Jonta “non ricordi”! pag. 65 della richiesta di archiviazione).

Un testimone falso che indica un capro espiatorio e, cosa importante, conferma la versione della casualità.

Jelle sparisce la vigilia di Natale sempre del 1997 pochi giorni prima dell’arrivo di dodici cittadini somali che la commissione Gallo aveva fatto venire in Italia per l’inchiesta sulle presunte violenze subite. Tra questi c’è Hasci Omar Hassan che viene arrestato, con l’accusa del duplice omicidio, appena sbarcato all’aeroporto di Ciampino. Il suo accusatore Ahmed Ali Rage è già “irreperibile”: una fuga clamorosa e improbabile per un testimone chiave sotto protezione che ogni giorno viene accompagnato dalla polizia presso l’azienda “Scomparin” dove lavora.

Non lo si è più cercato nemmeno quando telefonò dall’estero nel 2004 (e anche nel 2010) per dire che era stato indotto ad accusare Hashi da una autorità italiana e che la sua testimonianza era falsa (le conversazioni sono registrate e fanno parte della documentazione della commissione d’inchiesta).

Sparito il testimone, si è costruito un testimone “di riserva”, Ali Mohamed Abdi l’autista di Ilaria, già arrivato (senza una ragione se non quella che avrebbe dovuto testimoniare contro Hashi!) anche lui tra i dodici somali. Dopo un lungo interrogatorio e una pausa di oltre due ore (e dopo che il dottor Cassini, interrogato presso la Farnesina, conferma “de-relato” l’accusa nei confronti di Hashi) Ali Abdi finalmente dirà che sì, riconosce Hashi, gli è venuto in mente, faceva parte del commando ma non aveva sparato.

E che dire dei lavori della commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin (2004/2006)? La relazione di maggioranza, com’è noto, conclude che non si è trattato di un’esecuzione ma di un tentativo di sequestro finito male. Per l’avvocato Taormina nessun mistero su quelle morti, nessuna indagine scottante stavano svolgendo a Bosaso Ilaria e Miran, nessun ipotetico traffico di armi e rifiuti tossici o altro avevano scoperto. Il caso è chiuso.

(in un’intervista a Nigrizia del luglio 2005, sei mesi prima del termine dei lavori si legge:  …Inoltre, in quei giorni, Ilaria Alpi tutto faceva meno che indagini giornalistiche perché stava a Bosaso, insieme al suo cameraman, a prendere un po’ di sole»). Parole incommentabili! Oltre che offensive e calunniose. Le due relazioni di minoranza presentate dal centrosinistra contestano questa conclusione e accusano la maggioranza di aver fatto carte false e di aver ignorato documenti e testimonianze che mostravano come si fosse trattato di un “duplice omicidio mirato preordinato e ben organizzato con dispendio di uomini e mezzi”.

La testimonianza del sultano di Bosaso Abdullahi Mussa Bogor (due udienze febbraio 2006), che Ilaria e Miran intervistarono pochi giorni prima di essere assassinati, è stata completamente ignorata dalla relazione di maggioranza. Il sultano dice che Ilaria sapeva del sequestro della Faarax Omar davanti al porto di Bosaso; che voleva recarsi sulla nave, uno dei pescherecci donati dalla cooperazione italiana alla Somalia, che cercava conferme (ma già sapeva) su traffici di armi e di rifiuti tossici finiti in mare o interrati durante i lavori di costruzione della strada Garoe Bosaso.  Che l’intervista è durata qualche ora (in Italia è arrivata una sola cassetta con meno di mezz’ora di registrazione!). Termina con queste parole: “…Tutti parlavano dei traffici…del trasporto delle armi, dei rifiuti…chi diceva di aver visto…non si vedeva vivo o spariva o, in un modo o nell’altro, moriva…”

Altro clamoroso esempio la vicenda della macchina acquisita dalla commissione e sulla quale presumibilmente viaggiavano Ilaria e Miran al momento dell’agguato. La macchina è stata portata in Italia dopo 11 anni; tramite la “collaborazione” di Giancarlo Marocchino, del suo socio d’affari Amhed Douale e di un suo uomo di fiducia Bashir, posto sotto protezione in Italia e divenuto collaboratore anch’esso della commissione, farà anche alcuni nomi di possibili esecutori: una vicenda “opaca e inquietante” che va chiarita.

Così come va chiarito perché la commissione non volle fare la prova DNA sulle tracce di sangue rinvenute e appartenenti a un soggetto femminile. Forse perché si temeva che il risultato “incontestabile” demolisse le perizie compiute sulla macchina e anche le conclusioni della maggioranza della Commissione, che su di esse sono in gran parte fondate? Il gip dottor Cersosimo (che respinge la prima richiesta di archiviazione) tra i 26 punti da chiarire aveva chiesto nuove perizie sulla pick up e prove del DNA: tale prova  è stata eseguita nel maggio 2008 e le tracce di sangue non sono di Ilaria anzi “sono incompatibili col DNA di Ilaria”. Nuovi esami sulla pick up esami sono irripetibili perché “…. tutti i reperti analizzati sono andati distrutti nel corso delle analisi.” (pag. 34 della relazione a firma Biondo consegnata alla commissione in data 10 novembre 2005).

La macchina è identica a quella mostrata dal giornalista Buonavolontà in compagnia di Marocchino in un servizio andato in onda una ventina di giorni dopo l’agguato.

Lì si sostiene la tesi del proiettile vagante (contenuta anche in uno dei rapporti di Unosom!). Vengono mostrati fori del proiettile sul sedile davanti dove è seduto Miran e dietro dopo aver attinto Ilaria. Di per sé “proiettile unico vagante” appare piuttosto inverosimile fin dall’inizio ma la cosa diventa falsa (e depistante) quando si vedrà il filmato integrale dell’ABC e quello della TV Svizzera subito dopo l’agguato: si vede che sicuramente le foderine sono rosse e non grigie e che su di esse non ci sono fori. E se non si spiega questo fatto la perizia non sta più in piedi! Gli stessi tecnici della polizia di stato della cui competenza e rigore non ci sono dubbi, (richiesti di un chiarimento sul punto durante la conferenza stampa di presentazione dei risultati della perizia presso il palazzo di San Macuto) sostengono di avere operato con la documentazione video e foto a loro consegnate per la verifica/confronto.

Poichè foderine rosse senza fori e foderine grigie con fori c’è una bella differenza è possibile che il materiale consegnato non sia stato completo.

Molte piste non sono state esplorate dalla commissione che anzi le ha ostacolate. Si è arrivati ad accusare, per esempio, di depistaggio un consulente (Roberto di Nunzio) che sosteneva motivatamente l’esistenza di una pista investigativa su un traffico internazionale di armi collegato alla guerra nella ex Jugoslavia (anni 1991 – 1995) e alla violazione dell’embargo ONU per la vendita di armi alla Croazia. Le navi utilizzate probabilmente effettuavano scalo a Bosaso nel nord della Somalia per poi arrivare a destinazione. Questa ricerca era motivata dal fatto che Ilaria poco prima dell’ultimo tragico viaggio era andata, insieme a Hrovatin, proprio nella ex Jugoslavia e che le riprese fatte a Bosaso (dopo poche settimane) contengono elementi interessanti. Non furono nemmeno richiesti i documenti americani e dell’ONU. Roberto Di nunzio fu scagionato subito dal GUP e motivatamente.

Dunque il corso della giustizia è stato compromesso, gli assassini e chi li copre hanno potuto contare sul fatto che le tracce si possono dissolvere, che alcuni reperti sono scomparsi o non sono più utilizzabili, che molti testimoni hanno mentito non hanno detto tutto ciò che sapevano, altri sono morti in circostanze misteriose.

Ali Abdi, l’autista di Ilaria, muore in circostanze “sospette e misteriose” al suo rientro a Mogadiscio.

Una giovane somala Starlin Harush viene uccisa …in una rapina a Nairobi: oltre ad essere una buona conoscente di Ilaria era presidente dell’associazione delle donne somale, impegnata oltre che nel sociale a livello politico, interlocutore riconosciuto e autorevole in Somalia e in Italia; ci sono informative di intelligence che la riguardano; Ali Abdi dopo l’agguato del 20 marzo 1994 si recò a casa sua dove del resto è rimasta la pick up dell’agguato per anni.

Il colonnello AWES, capo della sicurezza dell’albergo Hamana, nei pressi del quale avviene l’agguato mortale risulta deceduto non si sa per quali ragioni né in quale periodo preciso: le testimonianze e le indagini non sono esaurienti su questo teste davvero importante, forse l’ultimo che ha visto Ilaria e Miran vivi. Poteva confermare o meno la controversa deposizione di Marocchino circa il fatto che fu proprio Awes a corrergli incontro e ad informarlo che avevano sparato” a due italiani  o che stavano sparando sulla macchina davanti alla sua (come riferisce invece il colonnello Cannarsa). Non un dettaglio verbale, quindi, riguardando la presenza o meno di Marocchino al momento dell’agguato.

Il colonnello ALI JIRO SHERMARKE: firmò un rapporto a seguito di una indagine (che aveva svolto in quanto a quell’epoca era capo della polizia di Mogadiscio Divisione Investigativa Criminale ). E’ morto anche lui senza che ne conosciamo cause e periodo del decesso. Il rapporto citato (pervenuto già nel dicembre 1994 al dottor De Gasperis titolare dell’inchiesta e agli atti) denuncia un possibile coinvolgimento di Giancarlo Marocchino nel duplice omicidio, circostanza confermata da altre testimonianze, in particolare dallo stesso Shermarke interrogato dal dottor Pititto.

Molti documenti sono stati desecretati dalla commissione ecomafie (che ha presentato proprio in questi giorni la relazione finale): riguardano le “navi dei veleni” che entrano nel nostro caso ancora in quel 1997 quando viene ascoltato in audizione, subito segretata, il collaboratore di giustizia Carmine Schiavone (…rivela quando come e perché il clan dei casalesi abbia cominciato ad interessarsi di rifiuti tossici e quali collegamenti avesse con i diversi poteri e in quali settori del ciclo…).

Si viene poi a conoscenza del collegamento con l’inchiesta della procura di Reggio Calabria, della morte per avvelenamento del capitano Natale De Grazia (il 13 dicembre 1995), figura chiave del pool investigativo di quella procura: rintracciò copia del certificato di morte di Ilaria tra le carte sequestrate nell’abitazione e nell’ufficio del noto trafficante Giorgio Comerio. Sappiamo anche che ben 11 carpette di colore giallo di quel sequestro riferite alla Somalia sono state trafugate/sparite, come ha riferito ufficialmente il sostituto procuratore Neri. E non è la prima sparizione di documenti! La copiosa documentazione comprendente anche testimonianze, audizioni, informative, materiali processuali di moltissime procure che direttamente o indirettamente hanno investigato su questo caso era segreta. E’ oggi a disposizione di tutti i cittadini anche attraverso il sito: www.archivioalpihrovatin.camera.it

Il sito si apre con parte dei lavori di Ilaria, anche inediti, che testimoniano il profilo di una giovane donna appassionata della vita e del suo lavoro. Testimoniano il suo interesse per i mondi dentro e fuori il nostro mondo, l’indignazione per le ingiustizie e le atrocità che continuano ad accadere, l’amore per ciò che si fa, per la conoscenza, per la cultura. L’amore per tutto quello che avvicina le persone ad altre persone, vive o morte.

Non si è voluto arrivare a verità e giustizia sul duplice delitto di Mogadiscio da parte di chi era a ciò preposto, fino ad ora. Per chi ha cercato e ancora cercato a partire da Luciana e Giorgio Alpi, indomabili genitori, è stato “facile riconoscere la falsità…” (Albert Einstein) e, per questa via sapere ormai tutto di quel duplice delitto, quel che è successo prima, durante e anche dopo.

Sono passati 24 anni dal 20 marzo 1994, “il più crudele dei giorni” (titolo del film di Ferdinando Vicentini Orgnani). Ma sono 8.760 i giorni crudeli che ha vissuto Luciana, 5.840 insieme a Giorgio che ci ha lasciato nell’estate 2010.
“La giustizia non è stata amministrata in nome del popolo…” (art. 101 della nostra Costituzione)

Non archiviare, è un dovere e anche un diritto per tutti i cittadini. chi ha funzioni pubbliche da adempiere, lo deve fare con disciplina ed onore .. (art. 54 della Costituzione).

“La verità è l’unica forma di giustizia possibile. E’ la verità che fa giustizia.”
(Come sostiene Giovanni Moro nell’intervista di Ezio Mauro sulla Repubblica del 13 marzo u.s.)

Mariangela Gritta Grainer (già Presidente dell’Associazione Ilaria Alpi)


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