Da 40 anni ogni anno il 16 marzo il giornalismo italiano si pone una lunghissima serie di domande sul rapimento e l’assassinio di Aldo Moro. Quella che fu definita la “geometrica potenza” di Via Fani, con un plotone di terroristi che incredibilmente riuscì a uccidere tutti gli uomini della scorta lasciando illeso Moro, è la scena sulla quale si pongono i primi drammatici interrogativi. Penso all’immagine di Moretti, privo di emozioni, rigido come una sfinge, che risponde a Sergio Zavoli ne “La notte della repubblica” negando ogni collusione esterna e riaffermando come un mantra che avevano fatto tutto loro, un manipolo di brigatisti di modesta cultura e nessun particolare addestramento militare. Come molti altri non ci ho mai creduto. Ma siamo condannati a non sapere, mentre quel tempo si allontana sempre di più e chi poteva parlare lascia questo mondo o si nasconde senza che nessuno più lo cerchi. Sappiamo invece che non si è realizzata quella democrazia compiuta, della mediazione ma anche dell’alternanza, dell’inclusione e non dell’esclusione, che Aldo Moro sognava e per la quale si era battuto fin dai giorni in cui aveva contribuito a redigere la nostra Costituzione. Sappiamo che da quel giorno di 40 anni fa è cominciata un lento ma inesorabile declino della politica e della rappresentatività dei partiti politici, fino ad arrivare ai tristi giorni nostri. Tutti dicono che quegli anni sono stati i più oscuri della storia repubblicana. Tecnicamente è vero. Ma in quegli anni in Italia c’era la forza della reazione all’orrore del terrorismo, c’era la forza della solidarietà e il coraggio della partecipazione, quel senso dello Stato che portò i cittadini comuni a scendere in strada appena si diffuse la notizia di Via Fani per un moto spontaneo di condivisione di una tragedia intesa subito come collettiva. E infatti lo stato vinse quella battaglia ma pagò il prezzo altissimo della democrazia incompiuta. Una democrazia che oggi regge con immane fatica all’impatto con la società liquida prodotta dall’avvento del digitale, e che le giovani generazioni non percepiscono come un valore. Credo che anche noi operatori della comunicazione dovremmo trasformarci un po’ in operatori della formazione: senza memoria e senza la conoscenza della storia si costruisce con i piedi nell’acqua e prima o poi arriva un ciclone e porta via tutto.