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La scrittrice e il suo doppio. “Quello che non so di lei” di Roman Polanski

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Dopo il cruciale film Il pianista, Roman Polanski ha percorso variabilmente una traccia creativa che, dai pur difformi Carnage, Venere in pelliccia, lo porta all’approdo di questo suo nuovo Quello che non so di lei (in originale D’après un’histoire vraie, omonimo libro di Delphine De Vigan, sceneggiato per l’occasione da Olivier Assayas), una sorta di esemplare saggio di regia tipica appunto del cineasta autore di tanti lavori di successo: dagli iniziali Il coltello nell’acqua, Repulsion ai successivi Per favore non mordermi sul collo, Che?, Chinatown, Frantic, La nona porta, ecc. Tutte opere contrassegnate dal costante ricorso, sulla base di una apparente normalità dell’assunto narrativo – in genere il confronto dialettico di contrastanti personaggi e alterne vicende – ad una progressione che sfocia, di solito, in più complesse, ambigue suggestioni.

Non sfugge a tale meccanismo spettacolare Quello che non so di lei, ove una scrittrice, Delphine, dopo un subitaneo exploit con un libro colmo di dolorose traversie personali, si ritrova bloccata da un impasse inspiegabile. Imprevedibilmente, però, incontra per caso una misteriosa signora che, saputo il problema della scrittrice, comincia a prodigarsi per soccorrerla come sa, come può. All’inizio garbata e attenta ad ogni défaillance di Delphine, Elle (questo il nome della signora che suggerisce fin dalla prima sequenza il tema del “doppio”) penetra sempre più a fondo nei rovelli psichici dell’amica, fino a condizionarne e, all’estremo, a dettarne comportamenti, decisioni. Insomma, un plagio pressoché totale che ingenera presto scompensi e spossessamento di personalità sempre più destabilizzanti.

Un simile stato delle cose, per di più, non si limita a determinare soltanto una condizione di sudditanza della disorientata Delphine alle prese con l’invadenza oppressiva della sempre più fantasmatica Eva, intrigata in un rapporto che da evidente equilibrio comportamentale si tramuta presto in un gioco arrischiato tra realtà e sogno, supposto legame solidale e immaginaria proiezione fantastica. Davvero, un enigma giostrato con abile mestiere più come ostentazione registica d’alta scuola che non quale rilassato racconto d’una storia di scontata convenzionalità.

Polanski, d’altronde, non è certo nuovo a questi espedienti di un formalismo narrativo inizialmente prevedibile e, in effetti, presto mutato in favola eccentrica, morbosamente attardato in erotismo ambiguo e in soprassalti paradossali. Ne fanno fede alcuni dei più recenti film di Polanski in cui la definita enunciazione di una storia tracima, deborda giusto nel suo doppio o addirittura nel suo contrario. In Carnage il confronto-scontro tra due famiglie, l’una facoltosa e supponente, l’altra colta e di limitate risorse, si risolve in guerra aperta, inconciliabile. In Venere in pelliccia, non molto diversamente, la sfacciata ragazzaccia che ambisce alla parte per la messinscena problematica diviene, nel fuoco del contrasto col regista, il deus ex machina intollerante, dispotico.

Da notare, in conclusione, l’oggettivo merito di Polanski e di tutta la compagine tecnico-artistica, oltre le due interpreti dei ruoli maggiori, Emmanuelle Seigner come Delphine ed Eva Green quale Elle, impegnati in una operazione di trascrizione “strumentale” del libro originario in versione ermeticamente incardinata ad un dramma esclusivamente dipanato in gloria del bel cinema. Ma privo, peraltro, di motivazioni, di spunti autenticamente ispirati da un solido impianto dialettico. Una cosa, insomma, come si diceva una volta, senz’anima.

Certamente, Il pianista, opera decisamente e compiutamente di Polanski, può dare a confronto con Quello che non so di lei ampia testimonianza a favore della maestria innegabile di questo autore tormentato e tormentoso che ha dato prova di una resistenza esemplare agli oltraggi esistenziali subiti: l’infanzia sotto il nazismo, la moglie assassinata dalla banda Manson, la torbida questione penale legata ad una colpa sessuale. Una vita d’inferno che il cinema non può certo lenire ma soltanto prospettare per metafore incalzanti.


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