di Michele Gambino
La notizia è di qualche settimana fa, e Attilio Bolzoni se n’è già occupato: il Giornale di Sicilia ha tentato di bloccare la fiction su Mario Francese, ucciso dalla mafia nel gennaio del 1979. La vicenda di un giornale che invoca la censura, e per di più sul suo giornalista migliore, può sembrare uno sconcertante paradosso solo a chi non conosce la storia dell’informazione siciliana, tanto carica allo stesso tempo di eroismi e mediocrità da apparire, se volessimo disegnarla, come il crinale di una ripida montagna, alla cui sommità troviamo non solo i giornalisti fatti tacere con la violenza, ma anche i giovani cronisti che nel 2018 – l’era dell’informazione di flusso, delle notizie che vivono e muoiono in un istante, di una stampa sempre più marginale rispetto al mare dei social – continuano a fare paura, e per questo vivono sotto tiro, poiché dire: “due più due fa quattro”, è una cosa che può costarti assai cara a certe latitudini. Mentre alla base del crinale c’è la folta schiera, sedimentata negli anni, dei pavidi e dei conniventi, il cui silenzio è una forma di complicità.
È una storia, questa, non solo palermitana, che parte da lontano. Sono passati quasi quarant’anni da quando Giuseppe Fava insegnò ai giovani cronisti riuniti sotto la sua guida a leggere tra le righe del principale quotidiano catanese, La Sicilia, i messaggi, i segnali, gli avvertimenti che si nascondevano in un titolo, in un editoriale, nelle pagine della cronaca politica o della nera. E ancor più a leggere ciò che non era scritto, le studiate omissioni che più di tutto segnalavano il peso specifico di questo o quel potente, questo o quel mafioso. Silenzi come cerniere d’impunità per un sistema di potere mafioso elevato a governo del destino di centinaia di migliaia di esseri umani.
Era un esercizio difficile ma utile quella decrittazione, ci aiutava a vedere la mappa dei vincenti e dei perdenti al grande gioco in una città che, in quegli anni, amava ancora fingere che la mafia esistesse solo altrove, a Palermo, a Trapani, certo non nella solare e ridente “Milano del Sud”, la bella Catania.
Certo non poteva sapere Giuseppe Fava, che presto quel modo omissivo e insinuante di scrivere avrebbe riguardato, su La Sicilia, le notizie sul suo stesso delitto. E certo non avrebbe nemmeno sognato di pensare che a scrivere quegli articoli vergognosi sarebbero stati alcuni dei colleghi al fianco dei quali era cresciuto.
Ma questa è la Sicilia, la terra dove fioriscono i limoni e dove ogni cosa è possibile, nel campo del potere.
A noi giovani cronisti, orfani del loro maestro, toccò decifrare negli articoli sul delitto Fava le strategie depistanti, studiate con cura, di chi voleva allontanare ogni sospetto dai veri mandanti, i cui nomi erano noti a tutti. Furono anni di dossier, esposti alla Procura, querele incrociate, tra giornalisti e altri giornalisti. Uniti dall’appartenenza ad un Albo professionale, separati nella concezione del mestiere e nella qualità umana.
Ieri e oggi, il padre padrone del giornale “La Sicilia”, è sempre lo stesso, Mario Ciancio. Sono passati innumerevoli sindaci, politici nazionali, cavalieri del lavoro, boss mafiosi, prefetti, procuratori della repubblica, ma lui è sempre lì, intramontabile. Invecchiato, gravato da accuse che un tempo erano voci sussurrate, e ora sono un preciso atto giudiziario, un rinvio a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa. E ancora vivo è il rito del bacio della pantofola, cui continuano a sottoporsi, al cospetto del potente editore, tutti coloro che al potere aspirano, o che il potere vogliono mantenere.
Scriveva trentaquattro anni fa Giuseppe Fava, nel suo ultimo profetico editoriale prima di essere ucciso: “Il clima morale della società è questo. Il potere si è isolato da tutto, si è collocato in una dimensione nella quale tutto quello che accade fuori, nella nazione reale, non lo tocca più e nemmeno lo offende, né accuse, né denunce, dolori, disperazioni, rivolte. Egli sta là, giornali, spettacoli, cinema, requisitorie passano senza far male: politici, cavalieri, imprenditori, giudici applaudono. I giusti e gli iniqui. Tutto sommato questi ultimi sono probabilmente convinti d’essere oramai invulnerabili”.
L’invulnerabile Ciancio continua a dettare modi e tempi della politica a Catania, ma intorno a lui, malgrado lui, molte piccole realtà crescono, coraggiose e forti, dai Siciliani Giovani a Meridionews, a Live Sicilia a molte altre. Voci piccole ma tenaci, cui manca, forse, per uscire dalla marginalità, soltanto la guida di un uomo straordinario come fu Giuseppe Fava.
Non vedo l’ora che i giovani cronisti catanesi vedano “Prima che la notte”, il film dedicato a Fava, e diretto da Daniele Vicari, che andrà in onda su Rai 1 nel corso di questa stagione. Scopriranno un uomo, la sua passione, la sua voglia di raccontare, e forse ne trarranno nuove energie per il lavoro difficile che hanno intrapreso. E chissà che la cattiva coscienza di qualcuno non pensi di bloccare anche questo film, come si cerca di fare con quello su Mario Francese. Ci sarebbe da divertirsi.