In questa estate torrida, dove soffia solo il vento della crisi e la cappa del caldo avvolge corpi e cervelli, assorbendo le ultime energie, già prosciugate dalla cieca e iniqua insipienza della politica, impegnata in una surreale partita a scacchi per salvare se stessa, andrebbero rilette come rivelazioni di saperi nascosti le visioni di artisti del passato, capaci di indicare consapevoli orizzonti di utopie possibili per il presente. Mentre nel silenzio soffocante di una strategia di smantellamento, si annientano di fatto le ultime roccaforti della cultura, svendute come vuoti a perdere, e gli archivi storici sono trasformati in sterili contenitori di merci invendute, balza agli occhi l’attenzione con la quale, invece, in altri paesi europei lo Stato s’identifica con la Cultura e viceversa, bene primario e diritto acquisito per tutti. Un esempio ed uno stimolo ci arrivano dalla Francia e da una mostra antologica, “Eugène Atget et Paris”, per illuminarci che seppur la Storia la vincono i potenti, sono gli umili che la scrivono.
L’inventore della fotografia documentaristica e illustratore del “romanzo popolare” della Belle Epoque, Eugène Atget, è un inquilino illustre dell’Hotel Carnavalet, Museo situato nel cuore del Marais e consacrato alla storia di Parigi dalle origini al XX Secolo, che tra ricostruzioni di ambienti e memorie del passato, insieme a manoscritti e carte, custodisce fondamentali documenti sulla Rivoluzione giacobina. Migliaia dei suoi scatti, imprigionati in antichi cliché, sono qui consultabili. Per sottolineare l’importanza delle fonti d’archivio e celebrare l’opera e l’originalità di uno dei padri della fotografia, questa esposizione ha permesso di sfogliare le pagine ingiallite, ma immortali, degli album di un artista di strada nativo di Bordeaux (già attore fallito di provincia, pittore mancato, instancabile flaneur di ogni angolo della città), scopritore della realtà urbana spogliata di ogni sovrabbondante orpello, nell’intento di imprimere e catalogare la nuda realtà con l’occhio fedele e disincantato dello storico, rendendo ogni immagine catturata un documento unico.
Come un venditore ambulante, girava instancabilmente con la sua pesante macchina fotografica in legno, a soffietto 18 x 24, munita di treppiede e di lastre di vetro, deciso a documentare ogni forma di vita sopravvissuta alla razionalizzazione urbanistica del barone Haussmann. Antesignano del reportage sociale e rivoluzionario per vocazione nell’utilizzare luci, ombre e inquadrature, Atget ha stilato così un manuale di “Storia minore” con immagini sospese in peculiari vuoti metafisici, ad evidenziare il rapporto di alienazione fra l’uomo e il mondo circostante.
Andava alla scoperta delle atmosfere e delle antiche abitudini; registrava le trasformazioni storiche e valoriali di una società che progressivamente, tra l’Ottocento e il Novecento, modificava i suoi stili di vita in nome della modernità. Sono le cose minute ad attrarre l’attenzione di questo poetico precursore della fotografia surrealista e poi di quella umanista. Riprendeva gli uomini e le donne comuni, i bambini, la fatica di vivere, gli umili lavori di strada, le piccole botteghe, gli oggetti ammucchiati o allineati in file ripetute, gli interni disadorni, i cortili nascosti, le insegne sui muri, i batacchi e i mascheroni dei portoni, le terrazze dei caffè spogli di clienti, le entrate dei bordelli, i giardini animati da statue di marmo o da alberi rinsecchiti dal gelo, gli angoli di strade dalle insolite prospettive.
Tutto ciò che è anonimo diventa sotto l’obiettivo di questo “artigiano” timido, riservato, solitario, che quasi viveva nell’ombra, improvvisamente luminoso, affascinante ed unico. E come accade per i film muti, con sottofondo di note stonate diffuse da un piano scordato, che mai smetteranno di incartarci, le sue immagini un po’ sfocate ci conducono in sentieri inesplorati, alla ricerca di istanti perduti, che non sapevamo di poter ritrovare dentro di noi. L’estrema precisione dei suoi particolari, che mentre liberano la vista dal superfluo, amplificano il dettaglio dell’essenziale, restituendo nobiltà al sottinteso e al nascosto, rappresenta la chiave di accesso al suo mondo enciclopedico e bizzarro, suddiviso per voci in maniera intransigente. ”Egli perseguiva gli elementi dimessi, spariti, svaniti, e così le sue immagini si rivoltano contro il suono esotico, pomposo, romantico dei nomi; risucchiano l’aura dalla realtà, come l’acqua pompata da una nave che affonda”, con queste lapidarie, monumentali parole, lo descriveva W .Benjamin.
Per sopravvivere, vendeva i suoi scatti per pochi spiccioli ad amatori occasionali, a piccole botteghe fotografiche, a decoratori e scenografi, a chiunque necessitasse di avvalersi dei suoi ”documents pour artistes”. Poi, nel 1898, iniziò a vendere alle collezioni pubbliche e ai musei le sue foto. Solo nel ‘21 il suo lavoro ottenne dei riconoscimenti, grazie all’incontro con Man Ray, affascinato dai suoi nudi di prostitute, dalle surrealistiche composizioni di manichini e oggetti nelle vetrine, catturate in insolite inquadrature. Ma fu la sua assistente, Berenice Abbott, a sdoganarlo dall’oblio nel ‘25, dopo aver acquistato molti negativi, realizzando su di lui saggi e libri fotografici, ritraendolo poi nel ’27 (poco prima della morte avvenuta in miseria e silenzio) come un personaggio epico, uscito dalle pagine crepuscolari di Victor Hugo: curvo e avvolto nell’ abituale pastrano nero.
E’ un luogo dello spirito la città che lui racconta con straordinaria precisione tecnica, velata da una nostalgia agrodolce e attraversata da un tempo che fugge. Le silhouette delle case, all’angolo fra le rues de la Seine e de l’Echaudé, si stagliano nell’aria, tagliando il cielo; i carretti rimangono abbandonati nelle corti del ghetto, in rue des Rosiers; dentro la vetrina di un antiquario a Faubourg Saint-Honoré le immagini scorrono con dissolvenze incrociate. E’ un racconto denso di poesia il ritratto, nel 1898, della piccola cantante di strada che come un “passerotto” si appoggia all’organetto (quasi una preveggente visione della Edith Piaf adolescente). Come in un gioco prospettico il pavé chiaro in discesa di rue Lepic, a Montmartre, viene infranto dallo spaesato venditore di abatjour, al centro di una scenografia teatrale con i muri delle case a far da quinte. Corpulenta e arcigna è la venditrice di ostriche, seduta davanti all’entrata della brasserie. E’ una Parigi vulnerabile, avvolta nella nebbia e nel mistero quella dei lungo-Senna verso Notre-Dame. La Conciergerie getta un riflesso sinistro sulle acque sottostanti. La basilica del Sacré-Coeur è fotografata dal retro, seminascosta dalle case. La chiesa di St.Etienne-du-Mont si profila in controluce fra le insegne dei negozi. La Galerie Vivienne si specchia nel silenzio dei suoi marmi traslucidi; spettrali appaiono i saloni degli Hotel particuliers, come abitati da fantasmi. Così il lusso tanto celebrato, simbolo stesso della “Parigi capitale del XX Secolo”, mette a nudo la sua speculare verità, fatta anche di solitudine, muri scrostati dal tempo, insegne malconce, ammassi di scope e dozzinali calzature a cornice delle botteghe, ceste piene di povere mercanzie sui marciapiedi. Non c’è traccia nella sua opera delle pompose celebrazioni, di “Expo universali”, o dei festeggiamenti ufficiali.
Sembrano quadri di nature morte fiamminghe i banchi dei mercati rionali. Vendono sogni a poco prezzo le prostitute dai sorrisi tristi sulle soglie dei casini. Trascinano pesanti carretti, ricolmi di sacchi i rigattieri lungo le vie rischiarate da un sapiente uso dell’apertura focale, che spoglia i fatti dalle emozioni. Sono una testimonianza storica le immagini delle fortificazioni militari, “Les Fortifs”, dismesse alle porte di Parigi, con le catapecchie e i laboratori improvvisati degli straccivendoli, gli “chiffoniers”, e gli insediamenti del sottoproletariato: immagini dell’insalubrità dei luoghi, della precarietà della vita e del lavoro schiavistico, senza scadere mai nell’emotività gratuita o nella commiserazione. Un’umanità povera, reietta, ma dignitosa, che si metteva in posa con i bambini sorridenti, consapevole che attraverso l’obiettivo di Atget sarebbe entrata nella storia, colmando per un attimo fuggente le disuguaglianze alle quali la vita l’aveva confinata.
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