Una moglie ferita gravemente, due figlie svegliate dalle urla del padre assassino e uccise in pigiama, poi il suicidio. La donna aveva chiesto aiuto, ma non l’ha ricevuto, perché ancora si sottovaluta e si tollera la violenza maschilista. L’omissione di soccorso pubblico è figlia della cultura che scarica sulla donna la gestione privata del fallimento della sua relazione. Tant’è che spesso la vittima non denuncia per vergogna. Perché sa che la disapprovazione sociale si rivolgerà verso di lei, ché non ha saputo sopportare la violenza del marito, come invece richiede il modello culturale ancora in vigore.
A questo punto dovremmo chiederci: come possiamo salvare le “morte che camminano”, prossime vittime del compagno padrone? Serve che lo Stato garantisca una tutela “vera” a chi denuncia il marito violento, come quella che si dà ai testimoni di mafia. Sì, perché la mafia familiare fa più morti di quella classica. E usa le stesse modalità: impone l’omertà, il pizzo quotidiano della sottomissione, la rappresaglia sui figli.
Basta con le condoglianze vili, dopo il pilatesco invito alla riconciliazione, le inutili ramanzine in questura; il divieto di avvicinamento regolarmente violato. E invece: scorta per i primi mesi successivi alla denuncia, telecamere all’ingresso dell’appartamento della donna collegate con la Polizia, controlli con braccialetto sugli spostamenti del denunciato per violenza dopo la prima trasgressione del divieto di avvicinamento.
Questo impegno concreto vorrei vedere nei programmi di tutti i partiti.
Altrimenti, saremo tutti complici dei prossimi massacri.
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