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La legge antimafia che porta il suo nome

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di Franco La Torre

Appena eletto in Parlamento, nel maggio del 1972, mio padre entra a far parte della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia.
La Commissione era stata istituita nel 1962, durante la prima guerra di mafia, e pubblicò il suo rapporto finale nel 1976. Insieme a Cesare Terranova, magistrato impegnato nella lotta alla mafia, candidato ed eletto, come indipendente, nelle liste del PCI, mio padre redasse e sottoscrisse, come primo firmatario, la relazione di minoranza che metteva in luce quanto era rimasto in ombra nella relazione di maggioranza, i legami tra mafia e politica. In particolare quelli nella Democrazia Cristiana ma non solo, facendo i nomi di importanti uomini politici dei diversi partiti che avevano favorito boss, ricevendo in cambio sostegno e vantaggi.
Alla relazione aggiunse la proposta di legge “Disposizioni contro la mafia” tesa a integrare la legge 575/1965 e a introdurre un nuovo articolo nel codice penale: il 416 bis.
La proposta segnava una svolta radicale nella lotta contro la criminalità mafiosa in Italia. Fino ad allora, infatti, l’appartenenza alla mafia non era riconosciuta come passibile di condanna penale. La proposta di legge La Torre prevedeva l’inserimento nel diritto penale di un nuovo articolo, il 416 bis, riferito al reato di associazione mafiosa, punibile con una pena da tre a sei anni, pena che saliva da quattro a dieci nel caso di gruppo armato. Stabiliva la decadenza dagli incarichi civili, consentiva le indagini patrimoniali e, soprattutto, l’obbligatoria confisca dei beni, riconducibili alle attività criminali perpetrate dagli arrestati.
Cesare Terranova, alla fine della legislatura, tornò a fare il magistrato, forte dell’esperienza maturata in Parlamento, che ne aveva, ulteriormente, affinato le capacità. La mafia non poteva sopportare che un magistrato che le aveva fatto la guerra tornasse a combatterla più forte di prima. Lo uccise il 25 settembre 1979, insieme al maresciallo di Pubblica Sicurezza Lenin Mancuso proprio alla vigilia del suo insediamento al Tribunale di Palermo come consigliere istruttore.
Pio La Torre aveva una grande conoscenza del fenomeno mafioso e del suo sistema di potere, che definiva “un fenomeno di classi dirigenti”. Era conscio delle sue trasformazioni, dalla mafia agricola e del latifondo, combattuta negli anni della gioventù, alla mafia urbana e dell’edilizia che, per mezzo di appalti pilotati – grazie alle connivenze con le dirigenze politiche locali – perpetrò il cosiddetto “sacco di Palermo”. Fino alla mafia imprenditrice che, avendo accumulato enormi capitali con il traffico internazionale di droga, aveva stretto indicibili alleanze col mondo dell’alta finanza.
Non aveva paura di fare chiaramente i nomi e i cognomi dei conniventi politici. Famosi i suoi giudizi su Vito Ciancimino, assessore ai Lavori Pubblici del Comune di Palermo dal 1959 al 1964 e poi sindaco del capoluogo siciliano dall’ottobre 1970 all’aprile 1971; in pratica signore incontrastato degli affari politico-criminali che misero in ginocchio una città che fa ancora fatica a rialzarsi.
Come bisognerebbe rileggere quello che scrisse Pio la Torre nella relazione di minoranza su Salvo Lima, Giovanni Gioia e Giovanni Matta, esponenti di primo piano del sistema di potere, che legava a Cosa Nostra le correnti della DC palermitana, facenti capo ad Amintore Fanfani e Giulio Andreotti. Dalla sua analisi del rapporto tra il sistema di potere mafioso e pezzi dello Stato emerge la sua convinzione che “… [la] compenetrazione è avvenuta storicamente come risultato di un incontro che è stato ricercato e voluto da tutte e due le parti (mafia e potere politico)… La mafia è quindi un fenomeno di classi dirigenti..”.

(13 – continua)


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