L’informazione deve essere libera, ma non troppo. Questa amara considerazione descrive bene l’atteggiamento della politica nei confronti di un settore vitale per la vita democratica del Paese. Un’informazione veramente libera può infatti rappresentare un problema. Perché racconta i fatti, illumina le periferie della società, della politica e dell’economia. In una parola, dà fastidio ai poteri. A parole quasi nessuno dirà mai di non volere una stampa libera. Nei fatti, però, quella dei giornalisti e del mondo dell’informazione è una quotidiana corsa ad ostacoli. La legislatura che si è appena conclusa ne è stata la dimostrazione. Dai grandi temi – concentrazioni editoriali, situazioni di oligopolio nel mercato pubblicitario, governance del servizio pubblico radiotelevisivo, conflitti di interessi – alle questioni che attengono le libertà e i diritti, tutti hanno manifestato impegno ed entusiasmo. La realtà racconta però di una legislatura fra le più inconcludenti della storia della Repubblica. Dalla legge di riforma dell’editoria – una grande occasione perduta – agli interventi per la cancellazione del carcere, sulle querele bavaglio e per la lotta allo sfruttamento del lavoro, governo e parlamento si sono guardati bene dall’adottare qualsiasi provvedimento che avrebbe potuto rappresentare un inizio di inversione di tendenza.
Ha ragione il presidente Paolo Gentiloni, quando nella tradizionale conferenza stampa di fine anno afferma che il contrasto al precariato deve restare centrale nel dibattito politico perché è essenziale per garantire un’informazione di qualità, fondamentale per la tenuta democratica del Paese. Non dice, il premier, perché emendamenti che avevano ricevuto il parere favorevole del governo, come quello per eliminare la forma di sfruttamento legalizzato utilizzata dalle aziende, ossia il ricorso ai cococo, siano stati fatti decadere nell’ultima notte di votazioni in commissione della legge di stabilità. Non ha niente da chiedere al ministro cui ha affidato la delega all’editoria? Che Luca Lotti abbia remato contro qualsiasi provvedimento che potesse in qualche modo rappresentare un passo in avanti sul fronte della qualità e dei diritti del lavoro giornalistico è un dato di fatto. Niente di personale, soltanto un problema culturale. Il ministro ha ritenuto, legittimamente dal suo punto di vista, di dover esercitare la sua delega guardando unicamente alle istanze delle imprese, a prescindere dagli investimenti e dall’occupazione. Parlano i numeri: soltanto nel 2017, 45 milioni per la chiusura dei processi di ristrutturazione aziendali con i pensionamenti anticipati; il credito di imposta sugli investimenti pubblicitari , il cui valore è di circa 80 milioni in un biennio; la reintroduzione, nell’ultima notte di votazioni della legge di stabilità, dell’obbligo di pubblicità legale sui quotidiani, che genera per il settore un fatturato complessivo di 100 milioni l’anno. È indiscutibile che si tratti di risorse essenziali per il sistema. Non è però accettabile che, a fronte di un impegno consistente di finanziamenti pubblici, il governo non abbia avvertito l’esigenza di imporre alle aziende contropartite adeguate in termini di lotta al precariato e di affermazione del lavoro regolare. A meno che non si pensi di assecondare la visione di chi, nel settore dell’editoria, ritiene che vada ridotto drasticamente il numero degli occupati regolari e allargato il perimetro del lavoro regolare. Quale informazione di qualità può produrre un comparto i cui addetti sono sempre più lavoratori senza diritti senza tutele e senza garanzie? Non è in gioco soltanto la sopravvivenza degli istituti della categoria, a cominciare dall’Inpgi, messo a dura prova da politiche aziendali che hanno puntato tutto sulle uscite anticipate e sugli ammortizzatori sociali per ridurre il costo del lavoro e il numero degli occupati, ma il valore strategico dell’informazione nel Paese.
Proprio per questo, l’occupazione sarà la priorità della Fnsi nel 2018. Così come deciso dal Consiglio nazionale, la mobilitazione sarà inevitabile. Nei confronti degli editori, con i quali va riaperto il confronto per il rinnovo del contratto nazionale di lavoro mettendo al centro la qualità dei prodotti, l’inclusione dei troppi colleghi senza diritti, e nei confronti del governo. L’attenzione mostrata dal ministro dell’Interno, Marco Minniti, sul tema dei cronisti minacciati, con l’istituzione – primo esempio in Europa – del Centro di coordinamento per le attività di monitoraggio sulle minacce ai giornalisti, ha rappresentato un momento importante, ma non sufficiente. Resta infatti il rammarico per lo stop alle proposte di legge che avrebbero portato alla cancellazione del carcere per i cronisti e ad introdurre norme per contrastare le querele bavaglio. È mancata la volontà politica.
Dopo la riunione in piazza Montecitorio del Consiglio nazionale della Fnsi e l’esecutivo dell’Ordine, il 22 novembre scorso, è arrivato il momento della mobilitazione. Andranno coinvolte le redazioni, i colleghi lavoratori dipendenti, gli autonomi e i precari: la vertenza lavoro riguarda tutti. Non soltanto i giornalisti, ma anche e soprattutto i cittadini. Perché la qualità della democrazia è direttamente proporzionale alla qualità dell’informazione.