“L’indifferenza globale è grave. I crimini commessi coinvolgono tutta l’umanità. I leader africani si impongano per salvare la dignità dei loro popoli.”
La voce di Alganesh Fessaha è ferma, indignata, accorata. Quando racconta il dramma infinito di profughi venduti come schiavi e torturati in modo terribile, la rabbia traspare.
“Dalla seconda “shoah” in Sinai siamo passati alla terza shoah, quella in Libia.”
L’immagine che la donna offre di questa vicenda così terribile è esplicativa. La dottoressa Fessaha è stata una protagonista coraggiosa della storia vergognosa e assurda della tratta di profughi, per lo più eritrei, che ha interessato la regione egiziana del Sinai, tra il 2009-2010 e il 2014. La donna eritrea, con la ONG Gandhi Charity, di cui è presidente, è riuscita a salvare 750 persone dalla feroce e orribile detenzione dei beduini.
Rapimenti, vendite di organi, torture, violenze e scambio di persone, come si trattasse di merci, hanno caratterizzato la disgraziata storia di profughi, nel loro tragitto dal Sudan ad Israele. L’incubo iniziava spesso nei campi del Sudan, sotto protettorato ONU, dove le persone erano rapite dai Rashaida, beduini sudanesi. Il secondo scambio avveniva con i beduini egiziani, ai quali i profughi erano venduti a circa 5.000 dollari. Il passaggio continuava da un gruppo di beduini all’altro, con un rialzo di prezzo fino a 50.000 dollari. La merce era rappresentata da persone, uomini, donne, bambini ingannati con crudeltà sulla possibilità di arrivare in Israele.
La vendita umana è durata per anni, con questo brutale sistema. I profughi sono stati usati spesso per la richiesta di riscatto alle famiglie. Tramite i cellulari degli imprigionati, i beduini si mettevano in contatto con i familiari delle persone, chiedendo di pagare cifre enormi per la liberazione del loro caro. Alcuni, con grandissimi sacrifici, sono riusciti a pagare e, forse, sono stati portati in Israele.
La chiusura della frontiera israeliana, però, ha complicato e reso ancora più triste la vicenda. La politica di sicurezza nazionale di Netanyahu, infatti, ha portato alla costruzione di una barriera proprio alla frontiera con l’Egitto, terminata nella sua parte principale nel 2013. Dotato di radar e videocamere, il muro ha di fatto impedito il passaggio e l’ingresso sui territori israeliani di profughi africani, richiedenti asilo.
I respingimenti alla frontiera hanno avuto la tragica conseguenza di gettare le persone, sudanesi ed eritrei soprattutto, nelle disumani prigioni egiziane. La cieca strategia israeliana contro i migranti africani, ha aggravato la già fragile condizione dei richiedenti asilo, facendo emergere profonde lacune sui diritti umani e sul rispetto di convenzioni internazionali, firmate anche dallo stato israeliano.
Nella tragica vicenda del Sinai, molte persone, incapaci di pagare il riscatto, sono state private di cornee e reni per la vendita di organi. Altri sono stati gettati e lasciati morire nel deserto dai beduini, non appena quest’ultimi ricevevano buona parte dei soldi richiesti. Si stimano numeri impressionanti: dai 5 agli 8000 deceduti nel deserto. Nel passaggio da un trafficante all’altro, le torture su queste persone sono state incredibili. Tenuti in catene nei vari spazi di detenzione e nelle fatiscenti prigionie, i profughi hanno subito abusi sessuali, strappo di unghie, torture con lame cocenti e plastica dissolta sulla pelle, legature a mani e piedi, e altri tipi di violenze.
Una catena vergognosa di brutalità e di nuovo schiavismo si è andata formando spesso con la complicità dei funzionari, delle autorità e della polizia sudanese ed egiziana.
Alganesh Fessaha è stata una luce di speranza, una sorta di ancora salvifica per alcuni prigionieri dell’infermo del Sinai. Insieme allo sceicco salafita Awwad Mohamed Ali Hassan, un beduino che esortava i fedeli a smetterla con le torture, contrarie alle parole del Corano, è stata protagonista del salvataggio di centinaia di prigionieri dei beduini, senza pagamento di riscatto. Circa 2000 persone sono state liberate dalle… Continua su vociglobali