La testata alla troupe Rai di Nemo, i colpi sparati in aria e un mattone tirato addosso alla troupe di Striscia la Notizia, la condanna a tre anni di reclusione per il direttore del giornale turco Cumhuriyet Oguz Guven, e si potrebbe continuare. Oppure, per capire le cose e per capire di avere ancora bisogno di riaffermare il senso di libertà perduto, si potrebbe tornare indietro.
La libertà di stampa nel passato
Indietro, al 1679 quando si posero le basi dell’Habeas Corpus Act sulla libera espressione del pensiero, poi un piccolo passo avanti declinato al remoto nel Settecento con l’approvazione del primo emendamento americano sui diritti che una stampa libera dovesse poter avere per esercitare al meglio la professione e senza che, come avverrà in Europa durante le due guerre, si ricorra alla censura preventiva. Come ha scritto Jean-Noël Jeanneney, politico e storico francese: “Ogni governo manifesta questa duplice e talvolta contrastante preoccupazione di reprimere la stampa in quanto portatrice di notizie pericolose, e di svilupparla come organo di propaganda”. Rimanere nel passato dentro la Rivoluzione francese che nella Costituzione rimarcava l’idea di non poter ammettere nell’espressione di una stampa libera l’autocensura indotta, preparandosi quasi a quelle che furono le conseguenze della prima guerra mondiale, in cui la stampa venne non solo repressa ma orientata verso un senso patriottico. La professione piegata e intralciata nella storia dagli autoritarismi che più spesso vogliono subordinare all’informazione l’obiettivo politico con l’ausilio di un bavaglio che lega le mani e benda gli occhi, alza il volume della menzogna con la speranza di non far udire le parole. Come se già tutto fosse stato deciso, la Storia si ripete ignara del passato, nonostante nel 1948 le Nazioni Unite riconobbero l’importanza di una libera informazione, e nel 1950 il Consiglio d’Europa approvò la Convenzione sui diritti dell’uomo e del cittadino specificando che l’esercizio di queste libertà potessero essere limitate cum legem solo nel caso in cui fosse in pericolo la società democratica, “misure necessarie per la sicurezza nazionale, l’integrità territoriale o l’ordine pubblico, la prevenzione dei disordini e dei reati, la protezione della salute o della morale, la protezione della reputazione o dei diritti altrui, o per impedire la divulgazione di informazioni confidenziali o per garantire l’autorità o l’imparzialità del potere giudiziario” (art.10), con particolare riguardo al coinvolgimento dei minori. Perciò, libertà e rispetto, in ordine allo Stato, al civile cittadino e al giornalista. E in ordine alla società democratica di cui ufficialmente facciamo parte. Durante la guerra del Vietnam nacque il giornalismo militante e presto quel passaggio obbligato tra notizia e intrattenimento venne spezzato. La CNN durante la prima guerra del Golfo era l’unica emittente a poter inviare nel mondo le immagini e le testimonianze di quel che stava avvenendo da sopra i tetti di Baghdad. In pochi decenni il giornalismo era mutato, non solo nei mezzi di informazione, ma anche nella fruizione e nella credibilità.
Non si tratta più solo di libertà di stampa
L’opinione pubblica non dipese più dalla verità pubblicata dal quotidiano, ma si rese protagonista all’interno di una rete potenzialmente infinita e liquida, la stessa che con le fake news oggi si rende allo stesso tempo virale, rapida e faziosa. La lotta e il diritto alla libertà, preesistente alla cittadinanza come ci avevano convinti dal foro, ha perso il significato intrinseco di verità. Quel che viene pubblicato e ammesso oggi rare volte sembra avere a che fare con il giornalismo di una volta, tanto dedito allo stile ma soprattutto all’inchiesta, allo scoperchiamento del malaffare con l’unico obiettivo di portare alla luce del cittadino un misfatto che non può essere tollerato e che, pertanto, andrà eliminato dalle strutture che finora lo avevano contemplato. E per quelle rare volte, la rete di sostenitori si fa vivace nel momento in cui il malaffare risponde ricoprendosi di illegittimità contrastando quel giornalista che ancora si ostina a parlare e a scrivere di verità univoca, come se si ritenesse che la verità sia invece dinamica, possa sposarsi con più ideali rimanendo integra. Il criminale, il burlone, il truffatore, tutti sembrano avere missioni più importanti da portare a termine, come se nella loro visione, una credenza ormai popolare, il giornalismo fosse semplicemente un vezzo da poter persuadere e veicolare in attesa che possa essere indotto e che possa indurre ad avere un certo comportamento, un’azione deliberata che i criminali, i burloni, i truffatori, avranno tutti stabilito in un intreccio di storie che sapranno essere distinte e rintracciate solo da pochi avveduti, con il tempo zittiti e distrutti. La notizia così ridiventa mera concessione. È lo Stato, è il burlone, il truffatore, il criminale a decidere se e quando poter far affiorare la verità e chiunque non si allinei a tale regola, come non scritte sono quelle della strada, rimane impigliato nella discordia, senza poter più scongiurare l’indifferenza. Per come stanno andando le cose, in un presente in cui le organizzazioni criminali impunite si fanno forza sull’omertà della paura e in cui alcuni governi di matrice autocratica si fanno passare per libertari calunniando l’informazione, accade paradossalmente che per i giochi così ammessi i popoli da secoli considerati diversi vengano accettati sotto la cupola della pseudo-verità, mentre gli spin doctors abituati ormai a questo ruolo vengono arruolati per vendere loro l’illusione del cambiamento. Sembra fatta, il buon giornalismo non trova spazio e deve arrendersi, congelando i propri intenti sotto la coltre di una finta pietas, oppure no, potrebbe ricordarsi di essere nato per raccontare una storia e che questa storia, per sua stessa natura, deve ancora essere compiuta.