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Il giuramento di Ippocrate (un alibi?)

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Confessioni ‘pericolose’ fra paziente e psichiatra in “Il penitente” di David Mamet, di scena all’Eliseo 

David Mamet: la forza del suo teatro, delle sue sceneggiature sta nel non (dovere) dimostrare,  redarguire, persuadere nessuno  Solo esporre casi fenomenologie umane come fosse entomologo, espositore neutrale ma capillare, dovizioso di connotazioni,  peculiarità di caratteri umani e ambienti d’ogni risma.  Per lo più spietati, selettivi, trituranti dignità o indolenza, sussulti di ribellione e acquiescenza allo “stato delle cose”- in genere conformato agli interessi contingenti (passeggeri, volteggianti, contraddittori) di chi, per un certo lasso di tempo, afferra il coltello (ma è solo metafora) dalla parte del manico.

Finchè, come accade fra animali o in ambienti mafiosi, il più forte, subdolo, iracondo non  lo disarma, imponendo altri codici di branco – applicabili sia agli ambienti più infimi (“American Buffalo”), sia a quelli dell’alta finanza o jet society (“China Doll”). Cosa determina, in Mamet, il capovolgimento di fronte (come nel paradigmatico, sopraffino “Le cose cambiano”)? Infallibilmente, l’irruzione di un accadimento “disturbante” (imprevisto, destabilizzante) in uno scenario urbano e antropologico già immerso nell’invisibile inferno della rivalità, del disagio psichico, della darwiniana selezione liberal-capitalista.

Essendo – il ribaltamento, lo sconvolgimento della più bigia routine affaristica, vedi “Glengarry Glenn Ross” – per lo più occultato (in incubazione)  presso personaggi o esistenziali sofferenze “meno inclini” alle risorse reattive, all’esercizio  della “schiena dritta”, alla pur minima ipotesi di uno “scacco matto” che conclude la partita come match point presto liquidabile per dare corso ad altre competizioni “all’arma bianca”, ma sanguinante la caducità della lotta.

In “Il penitente” il dramma s’incentra su tre nodi scorsoi: un eclatante (seppur farisaico) “caso di coscienza”, il tortuoso (criminogeno) rapporto fra uno psichiatra e il suo paziente, il conflitto fra una moglie e un marito (sottoposto a gogna mediatica da quando un suo assistito s’è trasformato un pluriomicida). “Per tutelare la privacy delle sue sedute e non venir meno al giuramento d’Ippocrate”, Charles (Luca Barbareschi) rifiuterà di testimoniare in tribunale, mentre emergono ulteriori sospetti a suo carico “avallati” da una  ‘formale’ (molto ‘recitata’ ed artefatta) conversione all’ebraismo e dall’avere “sottovalutato” la condizione omosessuale dell’omicida quale aggravante del disagio emotivo (sfociato in assassinio) e di una presunta “discriminazione” (colpevolizzante?) da parte dello psichiatra.

Scandito da una recitazione tesissima e volutamente sprezzante, dotato di un’ambientazione scarna e stilettata da elementi scenici non privi di (qualche) simbolica minaccia, “Il penitente” si dota – come è bene che sia – di un finale aperto ma perentorio, acuminato ma non definitivo, ribadendo le virtù di “freddezza ed empatia” (scusate l’ossimoro) di cui Mamet correda le sue opere, spoglie di (pre)giudizi etici e di pollici in giù: mentre giunge inevitabile il confronto con analoghe e più apologetiche  vicende del  cinema e del teatro, da “Io confesso” di Hitchcock a “Casa d’altri” di Silvio D’Arzo e “Io Abramo” di Renato Lipari, del tutto imparagonabili alla tensione “neutra” ma spietata della drammaturgia in atto.

Luca Barbareschi, che di Mamet è traduttore e divulgatore italiano (da tanto tempo) assolve al suo ruolo indossando, senza cipiglio, un personaggio che sembra occultare “se stesso a se stesso”: pervaso di (formale) decoro e professionale, stentoreo struggimento, ma che già avverte un  tracollo “quasi misterioso” e scientificamente non esplicabile (nemmeno tramite ipotesi di cupio-dissolvi).   Mentre  di Lunetta Savinio riteniamo impagabile, ‘naturale’ e in formidabile crescendo, quell’allarmata ma non sottomessa  apprensione di moglie che scopre, d’un tratto, l’ipotesi d’una verità senza nome.

“Il penitente” di David Mamet  Con: Luca Barbareschi, Lunetta Savino e Massimo Reale,  e con Duccio Camerini Traduzione e regia: Luca Barbareschi. Roma, Teatro Eliseo (in tournée invernale)


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