Dal nostro corrispondente a Berlino.
A quasi due mesi dalle elezioni la Germania non ha ancora un nuovo governo. Una delle maggiori sfide politiche mai affrontate da Angela Merkel sembra trasformarsi in una sconfitta per la cancelliera. Il paese rischia veramente di tornare alle urne oppure si tratta solo di una messinscena per indorare la pillola amara di un difficile compromesso?
Alle 18 di oggi devono ritenersi conclusi i negoziati per la formazione del nuovo governo tedesco – almeno così ha affermato il leader dei liberali Christian Lindner – e i vertici dei partiti coinvolti sono adesso chiamati a decidere sull’opportunità di proseguire i colloqui. In caso contrario, le trattative sarebbero fallite e la Germania dovrebbe andare a nuove elezioni. Nei due mesi trascorsi le dirigenze di CDU/CSU, FDP e Grüne hanno sviluppato un intenso confronto, organizzando incontri quotidiani, pause di riflessione, abboccamenti tra i vertici e minuziosi lavori in piccoli gruppi specializzati su singole questioni. L’impegno non ha dato però gli effetti sperati e – se sono stati raggiunti importanti compromessi, soprattutto sulle questioni economiche – le differenze paiono ancora inconciliabili su delicati temi programmatici quali le politiche d’asilo e quelle ambientali.
A grandi linee, lo sviluppo dei negoziati ha visto l’aspro scontro tra i Grüne e le due forze di centro-destra – liberali e cristiano-sociali bavaresi – con la CDU posta nello scomodo ruolo del partito maggioritario interessato al compromesso. Invero, tuttavia, le linee di faglia sono state più frammentate e asimmetriche, mentre gli stessi cristiano-democratici di Merkel hanno spesso rinunciato a una vera attività di mediazione, cercando piuttosto di portare gli altri partiti sulle proprie posizioni. Nello specifico, i problemi che minacciano di far saltare la cosiddetta “coalizione Giamaica” sono il ricongiungimento familiare per i rifugiati con protezione sussidiaria – decisamente avversato dalla CSU, ma recentemente indicato dai Grüne come una condizione inderogabile alla loro partecipazione al governo – e la riconversione energetica – dove la richiesta dei verdi di chiudere alcune delle numerosissime centrali a carbone incontra l’ostilità tanto dei cristiano-sociali quanto dei liberali, nonostante la Germania non possa così soddisfare i piani previsti per una riduzione delle emissioni di biossido di carbonio al 40% entro il 2020.
Lo spettro di nuove elezioni
I leader di partito concordano su un fatto: i colloqui hanno ampliato le differenze su questi temi anziché ridurle. Non è quindi possibile affermare con certezza cosa decideranno i delegati e – se alcuni, come Horst Seehofer, ritengono probabile il prosieguo dei negoziati anche durante la prossima settimana – la politica tedesca deve iniziare a fare i conti con un eventuale ritorno alle urne. Questo sarebbe in primo luogo un insuccesso personale di Angela Merkel, che si dimostrerebbe incapace di mediare tra le parti e di coalizzare attorno alla sua guida un gruppo di forze sì eterogeneo, ma non inconciliabile, come appare infatti da diverse realtà locali e dal governo “giamaicano” dello Schleswig-Holstein. In secondo luogo, sarebbe però anche una sconfitta per le restanti forze politiche chiamate a concorrere alla coalizione, nella misura in cui andrebbero ad anteporre i propri principi e le rivalità interne alla responsabilità istituzionale davanti al costo morale e politico di un secondo ricorso alle urne.
Il principale argomento che invita all’ottimismo – e a considerare le prese di posizione e i litigi attuali alla stregua di una necessaria messinscena a uso e consumo del proprio elettorato – è l’assunto secondo cui nuove elezioni non gioverebbero a nessuno. Dopo due mesi di inutili trattative, coloro che hanno perso consensi alle ultime consultazioni non possono seriamente sperare di guadagnare voti, e un parlamento ulteriormente rinnovato sarebbe, molto probabilmente, ancor meno governabile di quello odierno. Tuttavia l’analisi delle strategie politiche impone dei distinguo. Non tutti i partiti della “coalizione Giamaica” escono da una sconfitta, infatti sia i Grüne sia, soprattutto, i liberali potrebbero più facilmente cedere all’invitate sirena di nuove elezioni nella speranza di vedere confermato il trend positivo delle precedenti e – per i Grüne – scongiurare un futuro tracollo dopo i dolorosi compromessi a cui dovrebbero sottoporsi appoggiando il governo di Angela Merkel. Gli unici a guadagnare certamente da un fallimento nelle trattative sarebbero i populisti dell’AfD, mentre anche la SPD potrebbe sperare, considerando il successo in Niedersachsen, di riuscire a “riparare” al disastro del 24 settembre.
Indicativa delle ambiguità dei liberali è l’indiscrezione riportata dalla Süddeutsche Zeitung, secondo cui Lindner avrebbe fatto saltare un tentativo da parte della CDU di ricomporre il dissidio CSU- Grüne riguardo alle politiche d’asilo, esprimendo a sorpresa una posizione più intransigente dei cristiano-sociali e obbligandoli così a rifiutare il compromesso per non vedersi “superare a destra” dalla FDP.
Una sconfitta per la politica tedesca
Al di là dei calcoli strategici e dei singoli diverbi programmatici, le difficoltà incontrate nelle trattative rivelano il sussistere di un problema politico nella Germania di Angela Merkel. Come da più parti invocato, la “coalizione Giamaica” può funzionare solamente se la cancelliere riesce a imporsi quale donna della conciliazione, mentre i partiti alle sue spalle (e il suo stesso partito) si dimostrano incapaci di pervenire a un qualsiasi compromesso, parendo piuttosto invischiati in rivalità reciproche e, addirittura, intestine – come dimostrano le lotte di potere interne in seno alla CSU, dove alcune frange facenti capo al ministro dei trasporti Alexander Dobrindt stanno mettendo apertamente in discussione la leadership di Horst Seehofer. La figura di Angela Merkel, se rappresenta un collante tra forze eterogenee, non riesce a offrire un contenuto politico alla sua guida del paese, e questo nonostante che una “coalizione Giamaica” avesse tutte le carte in regola per assumere il profilo di un “governo per la modernizzazione”, capace di sfruttare le buone condizioni economiche al fine di risolvere i problemi strutturali ancora presenti – quali, per esempio, la limitata digitalizzazione dell’amministrazione, il rinnovo delle infrastrutture dei trasporti, la riforma del sistema di istruzione oppure l’ammodernamento della produzione energetica e di alcuni settori industriali.
Un effetto perturbante lo ha certamente avuto l’ascesa dell’AfD, gettando nel panico l’intero arco partitico tedesco – significativo, in questo caso, anche lo scontro interno alla Linke tra la segreteria del partito e la rappresentanza parlamentare – senza che si producessero risposte politiche di ampio respiro. Generalizzata pare infatti l’intenzione di “riconquistare”, ognuno per sé e contro gli altri, i voti persi in favore dell’estrema destra, radicalizzando le proprie posizioni e, conseguentemente, ampliando la distanza reciproca. Anche in questo senso, però, il governo di CDU/CSU, FDP e Grüne avrebbe potuto rappresentare una reazione democratica e modernista alla sfida proveniente dal populismo, ponendosi in difesa di una società aperta e liberale. Sapremo a breve se prevarranno gli interessi di parte, oppure se il merkelismo aveva solamente bisogno di una messinscena drammatica per assumere la nuova forma della “coalizione Giamaica”.
Nicola Bassoni