Totò Riina non c’è più e, come nel caso di Provenzano, non saremo noi a esultare o a sputare sulla bara di un criminale assassino con circa trecento vittime sulla coscienza e ventisei ergastoli sulle spalle. Preferiamo riflettere, al contrario, sulle ragioni per cui un personaggio del genere sia potuto rimanere latitante per un quarto di secolo, continuando peraltro a impartire ordini anche dal carcere di Parma dove era recluso al 41 bis.
Preferiamo riflettere sulla vera natura della mafia siciliana e sulle responsabilità della politica, di chi l’ha protetta, di chi se ne è servito, di chi ha fatto finta di niente, di chi ha asserito per decenni che la mafia non esista e di chi è arrivato addirittura a sostenere che ci si debba convivere, voltando costantemente la testa dall’altra parte, negando dignità alle innumerevoli vittime d questa piovra e, di fatto, uccidendole una seconda volta.
Su Riina c’è poco da dire: la sua biografia è nota, la sua barbarie pure, il sangue che è stato versato su suo ordine è stato al centro delle cronache, politiche e giudiziarie, per circa mezzo secolo, le sue vittime sono eroi e martiri ormai riconosciuti quasi all’unanimità. Ciò su cui vale la pena riflettere, dunque, è se questo contadino, divenuto boss di Cosa Nostra e, infine, Capo dei capi, sia stato davvero il mandante di questa infinita mattanza o se non fosse, piuttosto, una pedina al servizio di interessi superiori o, magari, entrambe le cose.
La morte di Riina, infatti, porta con sé tanti, troppi misteri mai risolti e sui quali, d’ora in poi, sarà ancora più difficile provare a far luce; porta con sé i non detti, i punti oscuri e le trame luride che, da Portella della Ginestra in poi, hanno caratterizzato la storia del nostro Paese, passando attraverso gli omicidi illustri, le stragi e i condizionamenti politici che hanno, ad esempio, sfregiato Palermo, vittima del sacco edilizio che, a partire dagli anni Cinquanta, ha sostituito le ville in stile Liberty con un’oscena colata di cemento che, purtroppo, non si è mai fermata.
Riina, pertanto, è certamente figlio di una tremenda storia criminale ma è, al tempo stesso, il frutto avvelenato di una terra in cui prospera il gattopardismo, in cui tutto cambia affinché tutto resti com’è, in cui i Pio La Torre, i Dalla Chiesa, i Chinnici, i Cesare Terranova, i Falcone, i Borsellino e altri personaggi del medesimo livello sono sempre stati considerati estranei, alieni e pericolosi anche da parte di alcuni di coloro che li avrebbero dovuti sostenere e supportare.
Quando venne assassinato il generale Dalla Chiesa, una mano ignota scrisse che, con la sua tragica fine, era morta la speranza dei siciliani onesti. Con la morte di Riina, purtroppo, non è finita la mafia, non è rinata la speranza di nessuno e il rischio, anzi, è che a tirare un sospiro di sollievo, in questo momento, siano proprio coloro di cui “Totò ‘u curtu”, com’era soprannominato, conosceva segreti che li avrebbero senz’altro rovinati.
Se n’è andato un farabutto, lo Stato ha avuto nei suoi confronti la pietà e la dignità che egli non ha mai mostrato nei confronti delle due vittime e, almeno di questo, possiamo dirci soddisfatti. Di tutto il resto no, a cominciare dalla squallida ipocrisia di tanti personaggi che, pur potendo, la mafia non l’hanno mai combattuta per davvero e oggi si trincerano dietro a qualche commento strumentale e di maniera al fine di nascondere la propria ignavia.
Iscriviti alla Newsletter di Articolo21