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Danilo Dolci: la pace come ragione di vita

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Di Danilo Dolci ci manca soprattutto la mitezza. Se ne è andato vent’anni fa, all’età di 73 anni, e da allora ci stiamo domandando quante battaglie siano venute meno a causa della sua scomparsa, quante periferie siano rimaste all’oscuro, quante speranze siano state tradite, specie in Sicilia, dove fra pochi giorni si andrà alle urne e, purtroppo, regna la massima incertezza per quanto concerne il futuro.

Danilo Dolci da Sesana (un paese all’epoca in provincia di Trieste e oggi situato in territorio sloveno), infatti, era un missionario laico, già aderente alla comunità fondata da don Zeno di Nomadelfia e determinato, al suo arrivo in Sicilia, a restituire dignità e diritti ad un popolo straziato dapprima dal fascismo e poi, soprattutto, dall’infinita barbarie della piovra mafiosa, capace di penetrare in ogni ganglio della società, di condizionare, quando non di dirigere praticamente in prima persona, la politica e di arrecare una quantità di disastri che già sessant’anni fa si capiva che avrebbero condotto l’isola al dissesto.
Passerà alla storia il suo sciopero della fame condotto sdraiato sul letto di Benedetto Barretta: un bambino di Trappeto (in provincia di Palermo) morto a causa della denutrizione, ossia di una piaga dovuta alla povertà della zona contro cui le autorità nazionali non erano mai intervenute.

Senza dimenticare il suo memorabile sciopero alla rovescia, con centinaia di disoccupati di Partitico (sempre in provincia di Palermo) che si attivarono per rimettere in funzione una strada comunale abbandonata: un episodio che gli costò l’arresto ma che certo non fermò le sue battaglie e le sue denunce.
E poi l’impegno contro la mafia, chiamando in causa anche alcuni maggiorenti della DC locale, fra cui il deputato Calogero Volpe e l’allora ministro Bernardo Mattarella, e subendo per questo conseguenze molto amare, fino a rischiare addirittura di finire in carcere.
Non a caso, in sua difesa, in seguito allo sciopero di Partinico, si mosse addirittura un padre costituente come Calamandrei, il quale il 30 marzo 1956 pronunciò un’arringa che è passata alla storia: “[Il Pubblico Ministero] ha detto che i giudici non devono tenere conto delle “correnti di pensiero”. Ma cosa sono le leggi se non esse stesse delle correnti di pensiero? Se non fossero questo non sarebbero che carta morta. […] E invece le leggi sono vive perché dentro queste formule bisogna far circolare il pensiero del nostro tempo, lasciarci entrare l’aria che respiriamo, metterci dentro i nostri propositi, le nostre speranze, il nostro sangue, il nostro pianto. Altrimenti, le leggi non restano che formule vuote, pregevoli giochi da legulei; affinché diventino sante esse vanno riempite con la nostra volontà”.
Considerato, al pari di Aldo Capitini, il “Gandhi italiano” per le sue proteste non violente ed il suo impegno in favore della pace, gli aspetti più significativi di Dolci erano la sua bontà, la sua gioia di vivere, la sia dolcezza d’animo ma, al tempo stesso, la sua fermezza di princìpi, la sua solidità di valori e la sua ammirevole tenacia.
Non ebbe grandi riconoscimenti (a parte il premio Lenin per la Pace assegnatogli nel ’57 in Unione Sovietica), ebbe spesso quasi tutti contro eppure andò avanti, lottò, perse, fu accusato persino di disonorare la Sicilia, e non da uno qualsiasi ma dal cardinale di Palermo Ernesto Ruffini, salvo essere straordinariamente amato dalla gente comune, dai tanti per cui si è battuto, dalle persone che ha difeso, per cui ha speso il proprio prestigio e la propria autorevolezza, cui ha applicato l’arte socratica della maieutica, favorendone così la presa di coscienza e, per quanto possibile, l’elevazione sociale,  e cui ha dedicato l’intera vita senza chiedere nulla in cambio.
Peccato che non abbia fatto in tempo a conoscere papa Francesco: fra uomini di rottura si sarebbero non solo capiti ma anche profondamente apprezzati, all’insegna di una ricchezza, culturale e spirituale, di cui avvertiamo sempre di più il bisogno.


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