23 settembre 1985, una sera di 32 anni fa. Giancarlo Siani si trovava nella sua macchina a due passi da piazza Leonardo al Vomero, quartiere di Napoli, quando è raggiunto da dieci colpi di pistola, tutti alla testa, da due killer a bordo di una moto. Quella stessa mattina, Siani aveva chiamato il suo ex direttore perché avrebbe voluto rivelargli “cose che sarebbe meglio dire a voce”.
Dopo 32 anni di Giancarlo, schiena dritto e voglia di essere semplicemente un “cittadino”, rimangono come testamento spirituale le sue convinzioni: “Da sempre sono esistite e continuano a esistere due categorie di giornalisti: i Giornalisti Giornalisti e i giornalisti impiegati. La prima è una categoria così ristretta, così povera, così “abusiva”, senza prospettiva di carriera, che non fa notizia, soprattutto oggi. La seconda, asservita al potere dominante, è il giornalismo carrieristico, quello dello scoop e del gossip, quello dell’esaltazione del mostro e della sua redenzione”.
Ed ancora: “Tante volte avere il tesserino, che sia da pubblicista o da professionista, non fa di una persona un giornalista, nel senso che sovente ci si imbatte in pennivendoli sgrammaticati amanti del denaro e della notorietà facile. Essere giornalista è qualcosa di altro. E’ sentire l’ingiustizia del mondo sulla propria pelle, è schierarsi dalla parte della verità, è denuncia, è ricerca, è curiosità, è approfondimento, è sentirsi troppe volte ahimè spalle al muro, emarginato. Essere giornalista significa farsi amica la paura e continuare sulla propria strada perché raccontando si diventa scomodi a qualcuno”.
La sua era una “resistenza civile” alla camorra, perché nel suo cuore, nel suo animo e nella sua idea di avere le scarpe consumate, albergava il seme della denuncia e della scrittura come mezzo di lotta.