BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

Immigrati: la merce numero uno

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I trafficanti, oggi, sono soprattutto arabi delle oltre 140 milizie e tribù in armi che spadroneggiano sul territorio libico, con o contro il governo di al-Serraj, interlocutore privilegiato del governo italiano, dice Emma Bonino, storica dirigente radicale ed ex ministro degli Esteri. Questi mercanti contrabbandano di tutto, dalle armi alla droga; e adesso controllano di fatto anche i campi in cui vengono recintati e stivati i profughi, privi di qualsiasi protezione, come merce respinta dai mercati e in attesa di non si sa quale destino. E’ difficile, infatti, pensare che nell’attuale frammentarietà della Libia ci sia un’istituzione con qualche parvenza di legalità capace di organizzarne il rimpatrio. Non c’era neppure con Gheddafi, adesso men che mai.

Tenuti lontano dal nostro sguardo, prima o poi dimenticati dalle prime pagine dell’informazione internazionale, questi lager si configurano come bombe a orologeria, destinate a deflagrare con ancor più clamore di quelle che già affliggono luttuosamente i centri europei presi di mira dal terrorismo islamico. Vanno costituendo un debito umanitario che verrà presentato all’incasso in qualsiasi momento con interessi di usura. Il fenomeno migratorio è stato definito presso che unanimemente da storici e demografi, politici e commentatori come epocale, destinato a protrarsi per decenni, sia pure con fasi più o meno acute: possiamo davvero credere di avviarlo a soluzione affidandolo a organizzazioni improvvisate?

E’ per riscattarli dalla genericità del branco in cui sono costretti, per ricordare la distinta individualità di ciascuno, dignità e speranze, che raccontiamo di seguito la storia di un pellegrino di quest’interminabile carovana di dannati della globalizzazione (tragico segno della sua più evidente  contraddizione: abbattendo ogni barriera ne costruisce di nuove), già da qualche tempo approdato in Italia che gli ha riconosciuto lo status di rifugiato:

la storia di As.*

Abbandonata alla deriva di tirannie e speculazioni, alle guerre fratricide, ai signori della guerra e all’ estremismo islamico, l’Africa sbarca clandestinamente in Europa alla disperata ricerca di sopravvivenza. Si chiama As l’uomo di sguardo vivace e aspetto robusto, la testa quasi calva e la faccia inquieta segnata dai patimenti, che mi si presenta un giorno accompagnato da un mio familiare. In Italia ha appena cominciato una nuova vita, profugo politico. E’ fuggito da Mogadiscio per sottrarsi alla persecuzione degli al-Shabaab, la milizia fondamentalista legata ad Al Qaeda.

Volevano arruolarlo a forza e per vendicarsi della fuga il giorno seguente hanno fatto irruzione nella sua casa. Erano in due: con una raffica di mitra gli hanno assassinato il padre e la neonata che in quel momento teneva tra le braccia, ferito la moglie e madre della bimba, Han. Gli altri tre figli (Ad, Is e Ran), tra i 7 e i 12 anni, sono corsi a rifugiarsi da uno zio. Spinta da un’incontenibile panico, la donna è fuggita. Su una terra stritolata da congiure e odi tribali, in cui appena un soffio separa la vita dalla morte, neppure i sentimenti materni sono al sicuro da oscuri istinti primordiali.

Sopravvivenze illegali, costrette ad attraversare frontiere cosparse di tagliole, i fuggiaschi sono niente più che indifesa selvaggina per cacciatori da tempo ormai ridotti a loro volta a fameliche bestie che pur di catturare la preda frodano ogni rispetto umano, qualsiasi regola di quelle poche che hanno preservato la nostra specie nei cataclismi millenari. Questa caccia dell’uomo all’uomo corre di nuovo lungo tutti i continenti.

As è un sopravvissuto allo sterminio. La sua fuga è più dolorosa di quella di Giuseppe in Egitto, reale, certa e comune ad altre decine e centinaia di migliaia, milioni di perseguitati dalla sopraffazione e dalla miseria su tre continenti. Sono numerosi e non meno sanguinari gli Erode che dalla Mesopotamia all’ equatore nero e al sudest asiatico vogliono uccidere i bambini e i loro padri e madri, chiunque tenti di sfuggire a una sottomissione settaria e violentissima, del tutto priva di quella misericordia che pure predicava con la medesima forza con cui faceva proseliti l’ultimo dei profeti, Maometto, il Lodato da Allah.

Non finivo più di scappare, nascondermi, scappare, scappare: di giorno sui camion e quando si fermavano perchè col buio gli autisti temono brutti incontri, proseguivo a piedi. Facciamo tutti così. Ombre incolonnate mantenute in fila dalla paura. La notte le iene perlustrano le radure. In quelle più chiare il loro dorso grigio spelacchiato diventa argenteo sotto i riflessi della luna. Sfiorano e qualche volta attraversano con spavalderia le piste di terra battuta e anche le strade asfaltate. Nell’ oscurità, quelle bestiacce lanciano riflessi che fanno gelare il sangue. Possono restare a lungo nel medesimo posto, anche ore: girano in circolo mentre fiutano l’aria.

A un tratto annusano qualcosa e il capo branco parte di corsa con dietro tutte le altre. Ne ho viste fino a una dozzina. Quando scompaiono, salti giù dall’ albero su cui uno si è rifugiato, se è una palma ti sanguinano le mani per i tagli. Sempre finisci mezzo scorticato. E riprendi la marcia cercando di stare contro vento. Nella savana la vita è così. Con le zanzare che ti entrano nelle orecchie; se ti stendi a terra per riposare puoi risvegliarti con la tasca in cui conservi un uovo sodo o una frittella di segala trasformata in un brulicante formicaio. O non risvegliarti più…

Muqdisho –in soomaali si chiama cosìnon è Roma ma è pur tuttavia una città: quando ci alziamo dal letto al mattino, noi infiliamo i piedi nelle scarpe. Fuori della porta la strada è sempre affollata, traffico da ogni parte. Non mancano i serpenti, ma sono una metafora. Negli anni, molti quartieri sono stati distrutti dai combattimenti, schegge di una guerra civile a tratti latente. Gli scontri tra i clan Habargidir e Ab Gaal all’inizio, poi Ali Mahdi contro Mohammad Farrah Aidid, i signori della guerra; infine i terroristi, gli attentati. Quando cessano di sparare, però, non dirò che tutto torna come prima; ma di nuovo è possibile andare al bar. Si riprende a respirare.

Ero proprietario di un cinema all’ aperto, un’arena, dite voi: il Waberi, lo conoscevano tutti. Proiettavo soprattutto film americani, ma anche qualcuno italiano. Con le Corti islamiche -fine anni Ottanta- si sono complicate le cose, però mi arrangiavo. Lo stesso Mahdi, un tipaccio, non era intrattabile. Ma nel 2006 arrivano gli al Shabaab:”Tu buon musulmano, non puoi fare film americani”, mi dicono. Riesco a procurarmi quelli indiani. Mostro il calcio, il calcio non ha religione: anzi, le comprende tutte. Quella sera di fine dicembre –me lo ricordo bene-, c’erano mille e 600 persone a seguire Liverpool-Milan. Hanno tirato il grilletto entrando di corsa e subito sono partite le raffiche, urla, esplosioni: otto morti e chissà quanti feriti, povera gente

Sono stato colpito anch’io, a una mano e alla schiena, guarda le cicatrici, guarda… Ho sentito un bruciore, perdevo sangue. A Mogadiscio non ci sono più ospedali. Sono corso a rifugiarmi in casa di un amico, un infermiere. Lui è andato in farmacia a comprare il necessario per medicarmi e mi ha tenuto nascosto 3 giorni. Mio padre mi ha fatto arrivare del denaro e sono partito di notte per l’ Etiopia, ad Addis Abeba abbiamo qualche conoscenza. Quando ho saputo che potevo tornare erano passati 3 mesi. Gli al Shabaab erano sempre lì. E si sono rifatti subito vivi.

Mio padre, Ad, era stato sottufficiale carrista nella guerra contro l’Etiopia del DERG, nel 1977-78. Questo precedente gli aveva fatto trovare lavoro nella base della missione militare di pace africana, l’Amison, a Mogadiscio. Al ritorno mio dall’ Etiopia ha fatto contrattare anche me. Il cinema era ormai perduto. Io abitavo non lontano dalla residenza militare. Con mio padre stavamo tornando a casa a piedi, un pomeriggio sul tardi, già più ombre che sole. Ci affianca un’auto guidata da un conoscente, accanto ha un tipo con la testa infilata in un cappuccio nero. Ehi, ehi, ascoltate bene… Ci chiedono di mettere una bomba nella base militare. E’ un’ordine, fa quello incappucciato.

Il giorno seguente torna il conoscente a ripetermi che devo fare ciò che mi chiedono. Gli spiego che non posso. Preferisci morire? mi risponde. Io voglio vivere, ho tre figli e la moglie incinta di 20 settimane. Devo scappare di nuovo. Un’ altra volta su un camion, poi a piedi fino ad Addis Abeba. Nel maggio del 2007 mi trovo a Khartoum, chiamo mia madre e apprendo che sono di nuovo padre: è nata Hir, sana e bella! Festeggio con i compagni di lavoro sul barcone con cui trasportiamo legname lungo il Nilo bianco, dalle 5 del mattino alle 5 del pomeriggio.

Neppure in Sudan la situazione è tranquilla, nel Darfur l’esercito perseguita l’etnia Janjawid, sebbene siano tutti musulmani, siamo tutti musulmani… Anche Yashid, che lavora con me ma è Janjawid e perciò ha sempre gli occhi tristi e si guarda attorno come un cane bagnato e bastonato. Vorrebbe venir via con me, ma non può abbandonare la famiglia. Passano appena 40 giorni e mi tocca un’altra tragedia. Al telefono, mia madre non fa che piangere. Eliminate le due guardie del corpo che proteggevano mio padre, gli Shabaab hanno fatto irruzione in casa e gli hanno sparato uccidendo anche la bimba che aveva tra le braccia.

In Africa non si riesce a vivere. . . Devo arrivare in Europa, in Italia. Per il posto sul camion che mi può portare in Libia saltando ogni controllo di frontiera chiedono 700 dollari americani. Da Londra, dove risiede da vari anni, mia sorella riesce a farmene arrivare tremila attraverso Western Union. All’ufficio telegrafico li riscuote Yashid per me, io non ho documenti in ordine. La giornata del clandestino è un continuo sotterfugio.

I trafficanti contrabbandano indifferentemente uomini, armi, donne, oppio, senza però far viaggiare mai insieme persone e merci. Con frequenza si tratta di somali in combutta con beduini del deserto, mentre i capi stanno a Khartoum, al Cairo, a Bengasi, a Sfax in contatto con agenti in Europa e nel Sud-Est asiatico. Devo farmi forza, stringere i denti e arrivare in Italia, mi dico sul camion che s’ avvicina alla frontiera con la Libia stretto tra il doppio dei passeggeri che mi avevano assicurato ci sarebbero stati. Abbiamo la schiena a pezzi e le gambe che bruciano. L’autista e l’arabo armato che viaggia con lui, socio e guardiano, fermano solo per le necessità fisiologiche più impellenti.

A bordo, sotto il tendone che ci impedisce di vedere fuori liberamente, siamo 42 e nessuno immagina che vogliano piantarci lì. Un paio di noi perfino cadono dalla panca su cui sediamo quando l’autista blocca i freni. Non ci siamo potuti muovere dall’ ultima sosta, 6 ore prima. Abbiamo raggiunto la provincia di al-Jawl, forse dalla cabina di guida già intravvedono l’abitato di Kufra. Nessuno lo dice, ma speriamo tutti che il peggio sia passato.

Si affaccia l’arabo: non solo ha una pistola in mano, ci mostra che sta mettendo il colpo in canna. Dà un’occhiata e dice che gli dobbiamo pagare altri 200 dollari ciascuno se vogliamo proseguire. Altrimenti ci riporta indietro, ci abbandona nel deserto. In mezzo a quel mare di sabbia sconosciuto che si sposta senza che uno se ne accorga e la notte spaventa e ammutolisce con i suoi cento fruscii. Non so raccontarlo meglio, però quando ci stai dentro lo capisci subito che sei perduto. Tiriamo fuori il denaro, nessuno fa un fiato. Dietro all’ arabo è intanto apparso anche l’altro, l’autista: tra l’indice e il pollice della mano destra stringe uno scorpione nero, velenosissimo, e ci guarda…

Di fronte a noi parlano dai cellulari, non sappiamo con chi. Mi sembra di capire che rassicurino l’ interlocutore che tutti stiamo pagando. Ripartiamo. Il viaggio però dura poco. Dovrebbero condurci in un posto in cui sia possibile almeno bere un pò d’ acqua, lavarci la faccia, avere un minimo di riposo. Invece ci fanno scendere davanti a una caserma e ci consegnano alla polizia libica che ci arresta tutti per ingresso clandestino. Il giorno dopo veniamo trasferiti nel carcere di Sawiya. Mi mettono con altri quattro in una cella di pochi metri quadrati e due soli giacigli sulla terra battuta.

Niente cibo, un secchio d’acqua a cella per bere e tutto il resto. Nella notte gelida arrivano a farti compagnia i topi, a decine, se non ti difendi ti rosicchiano le dita dei piedi. Oscenità e maledizioni in varie lingue mi riempiono le orecchie. Ci sono soprattutto arabi e somali tanto tra i viaggiatori quanto tra i trafficanti. Io sono stordito, arrabbiato con me stesso per non essere stato più cauto. Questo mi dice la testa che mi bolle dentro. Il corpo ne sa di più, è più saggio: ha imparato a resistere e riesce a farlo anche questa volta.

E’ necessario essere pazienti per salvare la vita: lo ripeto a me stesso come una litania per calmare la rabbia che mi divora e poi per spronarmi, non sprofondare nel fatalismo dei miei compagni di prigione. Devo capire dove siamo, com’è la routine del carcere. Il venerdi ci fanno uscire tutti all’ aria aperta, ammucchiati sul piazzale, per la preghiera. In lontananza ma nitide vediamo due ciminiere che sputano un fumo denso e nerissimo.

E’ una raffineria”, mi dice un libico incarcerato perchè ruba capre (“Altrimenti niente mangiare e poi le capre le ha fatte Allah, e le ha fatte per tutti”, si giustifica). A nord-ovest delle ciminiere dev’ esserci il mare, il Mediterraneo, mi spiega un altro. Ci sono momenti in cui sento che ce la posso fare, che ce la farò ad arrivare in Italia. E’ un momento. In quello seguente mi guardo attorno e tremo dall’ angoscia di restare preso in questa trappola. Una delle guardie è un sadico, lo si riconosce dalla faccia, lo sguardo affamato, da lupo.

Passano altri dodici venerdi di preghiera e di pena. Al tredicesimo siamo in 6, d’ accordo per fuggire. Abbiamo corrotto un guardiano: 300 dollari. Dobbiamo arrangiarcela per restare tra gli ultimi, in modo che tutti siano rivolti alla parte opposta a quella su cui si affaccia la porta carraia, sul retro, dove lui ci farà uscire. Riusciamo a restare in fondo a tutti, ultimi degli ultimi. Spiamo furtivamente da ogni parte. Ma lui non si presenta. Nessuno che lo sostituisca. Il guardiano più vicino è a 20 metri. Non capiamo se per noi sia meglio o peggio…

Scambiamo un paio d’occhiate e decidiamo di tentare. Retrocediamo lentamente, senza il minimo rumore. Prima in ginocchio, trascinandoci sul terreno; poi, appena individuata la porta, la raggiungiamo in quattro salti: è solo socchiusa! Siamo fuori in un lampo. Corriamo come conigli selvatici. . . Mi sta per scoppiare il petto quando mi guardo attorno: gli altri sono scomparsi e non mi metto certo a cercarli. Ciascuno ha preso la sua via.

Il sole sta scendendo rapido dietro le dune quando incrocio la grande pista di sabbia che porta a bin Qasim , una vecchia capitale della Cirenaica (ma questo lo apprendo dopo). E’ invasa da dozzine di cammelli carichi di pacchi voluminosi avvolti in plastica, una lunga carovana diretta a occidente che procede lentamente e in disordine. Un motociclista va avanti e indietro per assicurarsi che non si disperdano troppo, come fa un cane pastore con le pecore: frena i cammellieri più veloci e incita quelli rimasti in coda.

La seconda o terza volta che mi passa davanti gli sventolo in faccia un biglietto da 20 dollari. Ferma con una slittata che per poco non lo trascina a terra, e accetta di portarmi fino all’ incrocio con la camionabile per Bengasi. Ma poi di lì per arrivare a Tripoli non trovo di meglio che ricadere nuovamente in braccio ai soliti mediatori somali, che mi spillano altri 2mila dollari. Il denaro che abbiamo difeso passandocelo da uno all’altro nelle perquisizioni sparisce così… Come la solidarietà tra noi dannati.

Mi resta in tasca appena il necessario per pagarmi un paio di polpette fritte quando un compagno di viaggio mi guida alla nostra vecchia ambasciata, dietro il lungomare e piazza dei Martiri, da anni occupata da somali come me bisognosi di un rifugio. E’ ridotta male, i due piani della villetta sono affollati e sporchi, un puzzo perenne di cipolla putrefatta . Mi sistemo in un angolo sotto una finestra. Attraverso Western Union chiedo di nuovo aiuto a mia sorella a Londra.

Lei mi fa avere altri 5mila dollari, avvertendomi che sono gli ultimi: con questi fanno 14 mila e non è in condizione di mandarmene altri. Senza di lei sarei già morto. Ma anche così non è affatto detto che mi salvi. Ogni passo è a rischio. Cercare un imbarco per l’Italia richiede prudenza: i trafficanti vogliono essere pagati prima, senza dare in cambio alcuna garanzia; Gheddafi non amava i profughi e men che meno quelli somali.

Però ucciso lui è diventato peggio… L’ansia della mia traversata su un gommone che in vista di Lampedusa s’è afflosciato come carta straccia svanisce, davanti ai naufragi che negli ultimi tempi hanno riempito il mare di cadaveri corrosi dalla salsedine e smozzicati dai pesci. Ma non posso dimenticare quella donna assetata alla quale abbiamo impedito di bere l’acqua del mare perché le avrebbe bruciato lo stomaco. Con la lingua cercava le lagrime che le scendevano sulla faccia.

Quando è morta le ho visto la bocca ridotta a una piaga sanguinolenta. Qualcuno aveva ancora un pò d’acqua, l’ha tenuta per sè… Là sopra stai così stretto agli altri che quasi soffochi, eppure sei solo: devi concentrarti a ogni costo su te stesso se vuoi sperare di sopravvivere, negli occhi non hai i vicini ma le migliaia di chilometri che ti sei lasciato dietro e quanto manca alla salvezza, tutto il resto scivola via con le onde che t’inzuppano e ti lasciano intirizzito.

Livio Zanotti – Ildiavolononmuoremai.it

*Per considerazioni di privacità, il nome del protagonista e quelli dei suoi familiari non sono citati per esteso.

 


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